PuntoSostenibile

L’habitat del cuore

Intervista a Richard Louv

di Diego Tavazzi
pubblicato il 15/12/2020

Ci sono concetti ed espressioni che, un attimo dopo che sono stati formulati, entrano immediatamente nel nostro linguaggio. Alcuni anni fa Richard Louv coniò l’espressione “sindrome da deficit di natura”, e da allora chiunque debba spiegare e approfondire gli effetti della privazione della natura fa riferimento allo schema elaborato dal giornalista statunitense. Proprio per indicare dei correttivi alle distorsioni, sempre più gravi, provocate dalla mancanza di natura, Richard Louv ha scritto L’anima animale, un libro che in modo molto particolare racconta dei benefici che possiamo avere approfondendo la nostra relazione con gli animali. Punto Sostenibile ha intervistato Louv sul suo ultimo libro.

L'anima animale

Come il rapporto con gli animali può trasformare le nostre vite e salvare le loro

La prima domanda riguarda il ruolo delle storie, delle narrazioni. Sappiamo, dalla psicologia, dall’antropologia, dalle scienze cognitive e da molti altri campi di ricerca, che le storie rappresentano un ponte tra le emozioni e i sentimenti e le nostre parti più "razionali". Le storie del suo libro raccontano di incontri tra esseri umani e animali e del loro potere trasformativo. Per sperimentare questa trasformazione, dobbiamo raccontarci (e raccontare) storie? E cosa succede alle persone che lo sperimentano?

Gli animali possono avere impatti profondi e importanti su di noi, anche quando non ne siamo consapevoli o non abbiamo parole per descriverli; espandono i nostri sensi, ci insegnano l’empatia e comunicano con noi in modi che la scienza ha appena iniziato a comprendere. Capire come condividiamo il nostro habitat – non solo il mondo fisico, ma anche quello che nel libro chiamo l’"habitat del cuore" – è importante per il futuro dei figli di tutte le specie.
Anche se nel libro mi occupo di diverse questioni, le parti più importanti sono quelle sugli incontri con gli "altri’" Che si tratti di aree selvagge, di zone urbane o di contesti rurali, i nostri incontri con gli animali selvatici possono alterare la nostra coscienza. Anche un breve incontro con un animale selvatico può cambiare radicalmente le nostre percezioni del tempo, dello spazio e delle dimensioni; e vengono sollecitati in maniera importante anche i nostri sensi – e non sono solo i cinque a cui pensiamo di solito, ma, e la stima è prudente, almeno nove o dieci (alcuni scienziati ritengono addirittura che gli esseri umani abbiano una trentina di sensi, la maggior parte dei quali vengono usati molto raramente).

Una delle persone che ho intervistato mi ha raccontato di come i suoi incontri con le formiche l’abbiano trasportata in un altro mondo, quello degli insetti e, come nel racconto di Gulliver con i lillipuziani, il suo normale senso delle dimensioni si sia dissolto. Ho raccolto molte altre storie che illustrano non solo gli stati di alterazione della coscienza, ma anche le esplosioni di crescita spirituale che possono accompagnare queste esperienze.

Gli esseri umani, ovviamente, hanno sempre raccontato storie, spesso sugli animali o attraverso di loro. Lo fanno ancora, basti pensare alla miriade di video di animali su YouTube. Video di gatti divertenti, o di cani che hanno appena commesso una marachella, sono onnipresenti, quasi quanto le canzoni pop. Molti di questi video parlano di amicizie insolite tra cani e cervi, leoni e pecore. Forse vediamo in queste relazioni ciò che speriamo di vedere in noi stessi.

Jon Young, un tracker che insegna il linguaggio degli uccelli e la connessione con la natura in California, si reca spesso in Botswana, nel deserto del Kalahari, per approfondire un tipo particolare di connessione con la natura. È quella di un popolo che non ha nemmeno un nome collettivo per definire sé stesso, i suoi membri vengono chiamati "San" ed è una connessione al tempo stesso antica e molto profonda. Dai San Young ha imparato la pratica dello storycatching (letteralmente ‘catturare le storie’, ndT), attraverso cui le persone possono imparare a prestare attenzione a ogni dettaglio osservato, ascoltato o comunque percepito; possono poi fare una domanda a un uccello e, in seguito, riportare la loro esperienza attorno al fuoco o durante un pranzo. Quando raccontano quello che hanno vissuto, non si limitano a usare le parole, ma recitano fisicamente sia la storia sia le azioni dell’uccello. Catturando e raccontando queste storie, le persone diventano sempre più sensibili a tutto ciò che accade intorno a loro e nella natura, e possono riflettere sulle loro esperienze, cosa più facile da fare quando rivivono e raccontano queste esperienze ad altre persone. 

Molte di queste storie fanno chiarezza non solo sugli stati di alterazione, ma anche sui momenti di crescita spirituale che possono accompagnare questi incontri. In questi momenti è impossibile sentirsi soli. Questa è la realtà della relazione che ha luogo nell’habitat del cuore. Credo che la chiave per il futuro della vita sulla Terra stia proprio in questo habitat. Esistono, in realtà, due habitat: il primo è quello fisico, che molti di noi si dedicano a proteggere; l’altro è l’habitat del cuore, che al momento non nutriamo, in noi stessi o nei nostri figli, come dovremmo. Se uno di questi habitat sparisce, succede lo stesso anche all’altro.
 

Qualche anno fa hai scritto L’ultimo bambino nei boschi e hai notato per la prima volta quello che hai chiamato "disturbo da deficit della natura". Cosa è cambiato dal 2005, quando è stato pubblicato quel libro?

Anche se il divario tra le persone e la natura rimane profondo, stiamo assistendo a qualche cambiamento. So di un notevole fermento in Italia, e anche negli Stati Uniti stiamo iniziando a vedere dei progressi tra i legislatori, le scuole e le imprese, le organizzazioni civiche e le agenzie governative. Grazie ad alcune campagne regionali, persone appartenenti a schieramenti politici, fedi religiose e classi economiche diversi, si stanno dando da fare per creare connessione tra i bambini e la natura. Nel settembre 2015 è entrata in vigore la nuova iniziativa della Casa Bianca denominata "Every Kid in a Park", grazie alla quale tutti gli studenti di quarta elementare e le loro famiglie possono accedere gratuitamente ai parchi nazionali e alle riserve ittiche federali. Questo programma è stato ripreso anche dall’attuale amministrazione, e speriamo che continui. Al livello delle città, abbiamo Cities Connecting Children to Nature, una partnership tra Children & Nature Network e National League of Cities che rappresenta circa 19.000 sindaci e altri leader urbani. È un’iniziativa importante, che aiuta i leader locali degli Stati Uniti a rafforzare il collegamento dei bambini con la natura, concentrandosi in particolare su quelli più svantaggiati.
Secondo uno studio pubblicato di recente negli Stati Uniti, “The Nature of Americans”, rispetto a una decina di anni fa saremmo molto più informati a proposito della connessione tra esperienze nella natura e salute; saremmo però un po’ meno consapevoli delle connessioni con il funzionamento cognitivo e l’istruzione – le barriere all’esperienza della natura sono ancora sostanziali. Ora abbiamo bisogno di agire con maggior impegno, e di andare oltre la semplice consapevolezza, a livello sia familiare sia comunitario.

A livello internazionale, nel settembre 2012 l’Unione mondiale per la conservazione della natura ha indicato una serie di “conseguenze negative sia per lo sviluppo sano del bambino (disturbo da deficit di natura) sia per la gestione responsabile della natura e dell’ambiente nel futuro, e ha approvato una risoluzione intitolata "Il diritto del bambino a connettersi con la natura e a un ambiente sano". Questa connessione è, in effetti, un diritto umano. E il fatto di averlo riconosciuto è un deciso passo avanti.

C’è poi il Children & Nature Network, un’organizzazione senza scopo di lucro nata dopo la pubblicazione di L’ultimo bambino nei boschi, la cui missione è sostenere il movimento internazionale che punta a riconnettere i bambini e gli adulti alla natura. L’anno scorso il C&NN ha organizzato una conferenza internazionale che ha richiamato persone e organizzazioni da 24 paesi. A causa dell’attuale crisi sanitaria, il bisogno di connessione con la natura è ai suoi massimi storici e sta ancora crescendo. I parchi sono chiusi, e le tensioni crescono. Quando le restrizioni si allenteranno, la domanda di connessione sarà probabilmente molto maggiore rispetto a prima della pandemia. Riusciremo a soddisfare questa richiesta? Dobbiamo sostenere quelle iniziative che consentono di avere esperienze dirette della natura, in particolare per quei bambini e quelle famiglie che altrimenti non riuscirebbero a farlo.

 
Vorremmo anche approfondire la questione della tecnologia. Nel suo libro evidenzia il suo ruolo nell’approfondire la nostra rottura con la natura, ma sottolinea anche che in alcuni casi può aiutarci a riconnetterci con il mondo vivente. Potrebbe essere che, soprattutto per i più giovani, cresciuti in ambienti altamente digitali, la tecnologia diventi la porta d’accesso alla natura.

Non sono contrario alla tecnologia, ma credo si debba arrivare a un equilibrio. Le tecnologie digitali, ovviamente, non scompariranno, e abbiamo quindi bisogno della natura come fattore di di bilanciamento, adesso e in futuro più che mai. In effetti, dovremmo perseguire quella che ho chiamato la ‘mente ibrida’: ci servono entrambi i modi di conoscere il mondo, quello virtuale e quello che ci viene dal contatto con la natura. Oggi il vero multitasking consiste nel vivere sia nel mondo digitale sia in quello fisico: possiamo usare i computer per massimizzare la nostra capacità di elaborare dati e costrutti intellettuali, mentre negli ambienti naturali potremmo sollecitare le nostre capacità percettive e di apprendimento. In questo modo combineremmo i poteri ‘primitivi’ dei nostri antenati con la velocità digitale dei nostri adolescenti.
In alcuni casi, la tecnologia può anche contribuire a riconnetterci. Penso per esempio alla citizen science su internet, a quelle migliaia di ornitologi dilettanti che censiscono gli uccelli delle zone in cui vivono, o a quegli appassionati che monitorano le variazioni della biodiversità nel bosco dietro casa. Tuttavia, assieme alla crisi climatica e alla distruzione incontrollata degli habitat, la fede cieca nella tecnologia è il fattore che più mette in pericolo il nostro rapporto con le altre specie, e la vita stessa. Come ho detto, non sono contrario alla tecnologia, ma davvero serve un equilibrio. L’esperienza nella natura può ridurre molti degli svantaggi degli eccessi di tecnologia. Più diventiamo tecnologici, più abbiamo bisogno di natura.
 

E, per finire, vorremmo sapere quali delle storie e delle persone di cui scrive nel libro le sono piaciute di più...

Faccio davvero fatica a scegliere... Potrei citare l’incontro tra un oceanografo e un polpo; l’esperienza degli alunni di una scuola elementare con una tartaruga scatola; una madre e un bambino che hanno a capire il significato dei loro richiami; una giovane donna, affetta da autismo, che mi ha spiegato il suo rapporto con Koba, il meraviglioso cane che la assiste; una famosa esploratrice e l’orso polare che l’ha inseguita per giorni tra i ghiacci dell’Artide; uno sciamano, nativo americano, che ha celebrato i rituali della capanna del sudore nelle carceri statunitensi; un biologo specializzato nella fauna selvatica la cui vita è cambiata una notte in cui ha incontrato uno sciame di pipistrelli; un affermato uomo d’affari che mi ha raccontato di aver imparato tutto quello che gli serviva sapere sul proprio business osservando gli elefanti africani; una giovane ragazza che è stata protetta dai bulli da un cigno; e ce ne sono molti altri ancora.

Le storie che racconto più spesso sono però quella sul polpo che ha fermato il tempo e quella del bambino che, mentre era sdraiato accanto a Jack, il suo cane, ha detto a sua madre che non aveva più un cuore, perché il suo cuore era dentro Jack. Mi ha sempre colpito questa permeabilità tra il bambino e il suo cane. Sono storie su quello spazio liminale che esiste tra noi e gli altri animali, un luogo dove il tempo sembra fermarsi o deformarsi, e dove non siamo soli. Lo chiamo l’habitat del cuore.

Immagine: Lute (Unsplash)