PuntoSostenibile

Perché oggi possiamo ancora parlare di decrescita

Spunti per una discussione

di Marco Moro
pubblicato il 27/09/2022

C’è perfino tra i 17 Sustainable Development Goals, quegli obiettivi che se raggiunti entro il 2030 dovrebbero portarci in uno scenario coerente con obiettivi che tutti (beh, quasi tutti) i Paesi aderenti alle Nazioni Unite hanno convenuto di perseguire. È la crescita, naturalmente, anche se riverniciata come “duratura, inclusiva e sostenibile”.

Perché è desolante trovare quella parola perfino in quel contesto? Perché lo capiscono anche i bambini che se un sistema è definito da precisi confini non può contenere qualcosa che cresce indefinitamente.

Quella della crescita infinta è la promessa su cui si sostiene (o racconta di sostenersi) l’attuale sistema socioeconomico. Tanto efficace da finire per corrispondere quasi totalmente all’idea di cosa significhi la parola “progresso”. Concetto, quest’ultimo, che sembra aver perso diritto di cittadinanza, proprio perché esautorato dalla più semplice e attraente idea di crescita: della ricchezza, dei consumi, del comfort a tutti i livelli. 

Non è rilevante tornare sul perché questa sia una falsa promessa e una prospettiva irrealizzabile, soprattutto alla luce dei fenomeni che stanno caratterizzando i decenni più recenti. Il dato banalmente numerico – espresso dall’indicatore più amato dal mondo economico, politico e finanziario – ci dice che l’economia cresce, cresce comunque, anche se non ovunque e non omogeneamente. Ma non ci dice in che modo e a che prezzo. Le crisi, quindi, sembrano essere solo incidenti di percorso, pause di un sistema che poi riprenderà la sua corsa, distribuendo ricchezze e benessere dovunque e per tutti… prima o poi.

Ciò che gli indicatori più diffusi non dicono è cosa cresce e soprattutto come si distribuisce, chi se ne avvantaggia. Chi riceve di più e chi continua a perdere, quali elementi tra quelli che vanno a comporre il benessere di una collettività crescono e quali sono in continua e progressivamente maggiore sofferenza. I numeri con cui la politica e i media parlano di crescita non dicono quali sono gli effetti collaterali. 

E poi ci si trova di fronte ad alternative inaspettate: rinunciare al condizionamento o ai livelli di riscaldamento cui, una buona parte di mondo è abituata, per esempio. O scoprire che avere disponibilità infinita di acqua non è evidentemente un diritto acquisito per l’umanità. Di più: fare i conti con inflazione, redditi che non crescono, precarietà, progetti di vita che si restringono invece che, almeno, consolidarsi. Come la vogliamo chiamare? Questa è decrescita di fatto, e per gran parte della popolazione, anche nei nostri paesi “industrializzati” (come si amava dire un tempo) non c’è alcuna prospettiva reale di tornare indietro, a una crescita che garantiva tutto, almeno come ipotetica possibilità. 

Quindi siamo di fronte a due alternative: insistere irresponsabilmente e ottusamente a credere alle favole o prendere atto della realtà e progettare un’economia, delle politiche, una società diversa, una svolta culturale, un nuovo patto sociale che si fondi su una diversa idea di uso, condivisione e distribuzione delle risorse.

Possibile? E come? Rispondere a queste domande è l’obiettivo di Che cosa è la decrescita oggi, edizione italiana di un volume già pubblicato con successo in lingua inglese e spagnola, l’ultima uscita nella nostra collana progettata per dare un accesso facile e chiaro ai nodi fondamentali del presente. Giorgos Kallis, Susan Paulson, Federico Demaria e Giacomo D’Alisa sono gli autori di questa operazione di riabilitazione di un concetto che nel nostro becero dibattito politico nazionale è stato svilito e ridicolizzato. Come scrive Tim Jackson in uno dei numerosi praise che accompagnano il volume, “fornisce le risposte a perché, dove e come realizzare un’economia migliore e una società più prospera. Una visione che oggi è necessaria più che mai”.


Immagine: Erik Hathaway (Unsplash)