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PuntoSostenibile

L’evoluzione del paesaggio nella transizione ecologica

di Federico Butera
pubblicato il 22/10/2024

La parola paesaggio, quando evocata, è nella maggior parte dei casi associata al verbo preservare, tutelare, come nella nostra Costituzione, che nell’articolo 9 del paesaggio prescrive la tutela.

Nessuno si sogna di prescrivere che ciascuno di noi debba preservare, tutelare, un braccio, il cuore o il fegato, un qualcosa che è parte di noi. Va da sé. Si protegge e tutela qualcosa che è altro da noi. Quindi, se il paesaggio dobbiamo proteggerlo, tutelarlo, averne cura, e abbiamo bisogno di affermarlo, è perché lo consideriamo qualcosa di “altro” da noi. E se abbiamo bisogno di evidenziarlo, imporlo per legge, è perché evidentemente tendiamo a non proteggerlo, tutelarlo. Infatti l’uomo, nel corso della sua storia, non ha fatto altro che modificare il paesaggio, già da quando – cacciatore raccoglitore – portò all’estinzione della megafauna e poi, in modo molto più massiccio, con l’introduzione dell’agricoltura. Per non dire dell’impatto sul paesaggio delle più recenti rivoluzioni industriale e agricola.

Ma le cose stanno proprio così? È corretto ritenere che il paesaggio sia qualcosa di diverso da noi, che dobbiamo tutelare? E perché mai dovremmo tutelarlo, se è altro?

Se appena ci soffermiamo sulla definizione di paesaggio fornita dalla Treccani, che include “tutto il complesso dei beni naturali che sono parte fondamentale dell’ambiente ecologico”, ci accorgiamo invece che la tutela è necessaria, perché il paesaggio non è “altro”. Infatti, chiunque se ne occupi seriamente sa benissimo che il paesaggio non è come un bambino indifeso di cui prenderci cura, ma che del paesaggio siamo parte integrante. Noi – la società umana – e il paesaggio siamo un unico sistema in cui ogni parte interagisce con l’altra. Confondiamo l’alterità con l’essere osservatori, oltre che parte, del sistema. Nel momento stesso in cui osserviamo creiamo due categorie, quella dell’osservatore, noi, e quella dell’osservato, il paesaggio, ma usiamo gli strumenti sbagliati se nel paesaggio osservato non includiamo anche l’osservatore e non consideriamo che l’atto stesso di osservare avrà un impatto sul sistema osservato, cambiandolo in qualche modo, mentre l’osservatore sarà anch’esso cambiato da ciò che sta osservando.

E così vediamo che una modifica del paesaggio ha un impatto sul funzionamento del nostro sistema sociale così come una modifica del funzionamento del nostro sistema sociale può avere un impatto sugli equilibri ecosistemici territoriali, che a loro volta innescano conseguenze economiche e sociali.

In biologia evolutiva si parla di fitness landscape, paesaggio dell’adattamento, una metafora utilizzata per visualizzare la relazione tra genotipi e successo riproduttivo. I paesaggi di fitness sono spesso rappresentati come catene montuose, un monte per ogni genotipo diverso, e la posizione sul fianco del monte rappresenta il tasso di riproduzione. Una popolazione in evoluzione scala il fianco della sua montagna attraverso una serie di piccoli cambiamenti genetici, fino a raggiungere un optimum locale, la cima, e a quella posizione corrisponde il massimo locale dell’adattamento, cioè del massimo tasso di replicazione, la cui altezza deriva dalla maggiore o minore capacità di utilizzare con continuità le risorse disponibili da parte del fenotipo a cui il genotipo dà luogo.

Estrapolando da questa metafora biologica, immaginiamo di avere a che fare, invece che con genotipi e fenotipi, con specie diverse, e che il paesaggio sia un ecosistema in cui ogni altura è una specie. In questa metafora una specie rappresenta una montagna tanto più alta quanto più essa è adatta, cioè è capace di utilizzare le risorse offerte dall’ambiente, il che si manifesta nel suo tasso di riproduzione. Nel fare così, però, nella sua affermazione che si manifesta nella crescita numerica, può capitare che sottragga risorse a un’altra specie la cui montagna, quindi, riduce la sua altezza, o addirittura sparisce, diventa pianura o valle. Questo per dire che il processo evolutivo di qualsiasi specie comporta la modifica del paesaggio dell’adattamento, e dunque è in realtà un processo coevolutivo, della specie e del paesaggio.

“La coevoluzione è una storia di paesaggi accoppiati che danzano”, afferma Stuart Kauffman (S. Kaufmann, At Home in the Universe, Oxford University Press, New York, 1995), e lo spiega con l’esempio che segue, riguardante due popolazioni, una di rane e una di mosche. Una mutazione genetica fornisce a una rana la lingua appiccicosa. Questa rana ha un vantaggio competitivo e la sua progenie rapidamente si diffonde nella popolazione di rane, sostituendosi alla popolazione originaria. Il paesaggio delle mosche è ora cambiato. Lì dove c’erano dei picchi di adattamento, ora non ci sono più (per esempio, la capacità di stare qualche centimetro lontane dalle rane), e addirittura sono diventati valli. Poi un’altra mutazione genetica fa nascere una mosca con il corpo scivoloso, e si diffonde rapidamente: emerge un nuovo picco.

Dunque, il paesaggio dell’evoluzione non è statico, tutt’altro: le specie formano il paesaggio, e il paesaggio è formato dalle specie. Il tutto in un processo dinamico, fatto di punti di temporaneo equilibrio, nei quali il paesaggio appare statico. Ma dura poco, e la trasformazione riprende. Riprende molto lentamente e – a tratti – con trasformazioni rapidissime, catastrofiche, che ridisegnano completamente il paesaggio.

L’evoluzione tecnologica segue, in qualche modo, le regole dell’evoluzione biologica (G. Basalla, The Evolution of Technology, Cambridge University Press, 1989), se si sostituisce il genotipo col progetto di una tecnologia, e il fenotipo col prodotto. Il fenotipo si afferma se è adatto all’ambiente, l’ecosistema in cui si evolve, esattamente come un prodotto si afferma se è adatto al suo ambiente, il mercato. Analogamente, se un nuovo fenotipo si moltiplica a spese di altri fenotipi e trasformando quindi il fitness landscape, anche un nuovo prodotto, affermandosi, modifica il paesaggio dell’adattamento del sistema socio-economico.

Sempre Kauffman ci fornisce la traduzione al sistema socio-economico del concetto di coevoluzione. L’auto si diffonde, e cavalli e carrozze sono fuori, e con loro i fabbri, i sellai, le stalle, i negozi di finimenti, i costruttori di carrozze… Ma l’auto fa espandere l’industria petrolifera, fa nascere le stazioni di servizio, le imprese che pavimentano le strade e – visto che le strade sono pavimentate e la gente comincia a muoversi, nascono i motel…

Anche l’evoluzione tecnologica, come quella biologica, in realtà è coevoluzione: spariscono le stalle e nascono i motel.

Facciamo un altro passo avanti e consideriamo il paesaggio nel quale viviamo attraverso l’ottica del paesaggio dell’adattamento. La nostra presenza su questa terra, dal momento in cui siamo diventati sapiens sapiens, ha dato luogo a un impatto, sul paesaggio dell’adattamento nel quale vivevamo, molto maggiore di quello di altre specie e di noi stessi nei nostri precedenti stadi evolutivi.

La ragione è che il nostro fenotipo è rapidamente cambiato, pur lasciando sostanzialmente invariato il genotipo, perché ci siamo dotati di protesi, via via sempre più sofisticate, che ci hanno trasformato nel più efferato dei predatori: siamo diventati più letali di un leone usando pietre affilate invece delle unghie e dei denti, ci siamo dotati di arti lunghissimi usando le frecce e le lance per raggiungere la preda, e poi abbiamo imparato a diventare forti come un elefante usando le carrucole, la forza dell’acqua con le ruote a pale e del vento con i mulini. Poi ancora abbiamo imparato a muoverci più velocemente di qualsiasi animale con il treno e con l’automobile, abbiamo imparato a volare, con l’aereo, e infine abbiamo realizzato il grande sogno della telepatia con lo smartphone.

E così, come osserva Telmo Pievani (T. Pievani, “Cambio di prospettiva”, Le Scienze, aprile 2022), “già 12.000 anni fa, quasi tre quarti delle terre emerse erano abitati (inclusi il 95 per cento dei boschi temperati e il 90 per cento delle foreste tropicali) e dunque in qualche modo influenzati dalle società umane. Le aree protette e le terre indigene, che a noi oggi sembrano così 'naturali', sono a ben guardare il risultato di una lunghissima coevoluzione tra gli habitat e gli usi antropici”.

Cioè, il processo coevolutivo era ai suoi primi passi, l’altezza del picco della collina che rappresentava l’uomo nel paesaggio dell’adattamento era ancora bassa (eravamo pochi), e questo paesaggio nel suo complesso era piuttosto stabile, o soggetto a trasformazioni molto lente.

La trasformazione più grande del paesaggio dell’adattamento che caratterizza la biosfera (uomo incluso) è avvenuta a causa dell’agricoltura e dell’allevamento, protesi di tipo sistemico. La specie uomo, grazie a queste protesi è riuscito a ottenere più risorse (cibo) dalla stessa superficie di quanto non fosse capace di ottenerne prima, e si è moltiplicata, molto più di prima, rivoluzionando il paesaggio dell’adattamento, ma sempre in modo da non creare “effetti indesiderati” che ne mettessero a rischio la stabilità.

Per garantire questa stabilità, e mantenere quindi la sua collina e la posizione alta su questa collina, l’uomo scoprì che il modo migliore era quello di mimare gli ecosistemi, cioè costruire la “protesi” agricoltura in modo che al suo interno la materia circolasse indefinitamente e i soli input fossero l’energia solare e il lavoro umano.

Lavoro umano necessario per costruire quel paesaggio agrario che è anche il risultato di un compromesso fra gli intrusi, le specie ordinatamente coltivate dall’uomo e le specie preesistenti, selvatiche, naturali. Tanto vero che se si abbandona la cura di un campo, dopo poco tempo si naturalizza. È quindi un equilibrio dinamico, quello del paesaggio agrario, l’equilibrio fra l’uomo che forza, e qui occorre il suo lavoro guidato dalla sua intelligenza, e la natura che resiste.

Con l’agricoltura ha inizio la simbiosi fra la specie umana e alcune specie vegetali. L’uomo le fa crescere, le protegge, dà loro acqua, suolo ricco di sostanze vitali garantite da un micro-ecosistema sano, le cura, e loro forniscono il nutrimento di cui lui ha bisogno.

Il paesaggio tradizionale, diversificato, è il prodotto di questa simbiosi. Simbiosi che si esplica anche nella protezione, anzi promozione, della biodiversità, perché biodiversità è stabilità, resilienza.

L’Antropocene inizia quando la simbiosi si trasforma in sopraffazione, quando il principio della massimizzazione della produttività si afferma; quando si comincia a trattare la produzione agricola con lo stesso modello mentale della produzione industriale. Quando la diversità viene vista come un ostacolo alla produttività, alla massimizzazione del profitto, e in nome della produttività ci si spinge sempre più verso l’uniformità.

C’è un legame molto stretto fra il paesaggio e la maggiore o minore biodiversità presente in un dato territorio. Maggiore la biodiversità, più ricco, articolato, complesso è il paesaggio, e più è sostenibile. E non c’è da stupirsi: la diversità è l’indicatore principe del livello di sviluppo e dello stato di salute di un ecosistema, all’interno dei vincoli ambientali.

Ma il paesaggio agrario è anche il prodotto della simbiosi di cui si è detto sopra, e quindi nel paesaggio c’è uomo e natura, e dunque anche cultura, storia, valori. Poiché la storia si evolve, l’organizzazione sociale cambia, nuove tecniche e tecnologie si affermano, il paesaggio fisico è dinamico, come lo è quello dell’adattamento.

Sottolineano Mazoyer e Roudart (M. Mazoyer, L. Roudart, "A History of world agriculture", Monthly Review Press, New York, 2006): “l’agricoltura osservata in un dato luogo e in un dato momento appare innanzitutto come un oggetto ecologico ed economico complesso, composto da un ambiente coltivato e da un gruppo di unità di produzione agricola (o aziende agricole) collegate che mantengono e sfruttano la fertilità di questo ambiente. Guardando oltre, si può anche osservare che le forme di agricoltura praticate in un dato momento variano da una località all’altra. E se si osservasse un determinato luogo per un lungo periodo di tempo, si noterebbe che la forma di agricoltura praticata cambia da un’epoca all’altra”.

Un paesaggio privo di biodiversità, uniforme, non può essere bello, e non lo è. È un paesaggio che non si basa sulla simbiosi, ma sulla sopraffazione, è il prodotto di una sola spinta, la produttività – che deriva dall’avidità.

Un paesaggio agrario fatto di tanti piccoli appezzamenti ciascuno destinato a colture diverse, ricco di siepi e guarnito di boschi, è un paesaggio ricchissimo di biodiversità nell’aria, nell’acqua e nel suolo, fornisce tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno per la sua alimentazione, o quasi, è resiliente ed è anche bello. È bello perché è armonioso, come usano dire i cinesi, che alla parola sostenibilità preferiscono la parola armonia.

C’è un legame fra biodiversità ecosistemica (misurata sia in termini di numero di specie animali e vegetali sia in termini di diversificazione degli ecosistemi e dei suoli), diversità genetica umana e diversità culturale, per cui “quando estinguiamo la diversità biologica, estinguiamo anche la diversità culturale, e viceversa”, osserva ancora Pievani , che aggiunge: “l’Italia è il paese in Europa con la più alta biodiversità… è il paese europeo con la più alta diversità genetica umana… presenta un corrispondente elevato grado di diversità culturale, misurata in termini di numero di minoranze linguistiche, di dialetti, di tradizioni locali, di stili artigianali. Nel caso delle culture gastronomiche, esiste una relazione diretta tra l’alta diversità dei prodotti agroalimentari italiani e la diversità delle tradizioni culinarie”.

I concetti sopra espressi si applicano anche al paesaggio urbano. Così come la diversità della produzione agricola e la ricchezza del paesaggio rurale sono state sacrificate sull’altare della massimizzazione del profitto, analogamente nelle città tutti gli uffici sono stati confinati nella stessa area, tanti grattacieli di vetro uno accanto all’altro, tratto distintivo dei centri direzionali delle città moderne. Ci sei dentro e non puoi dire se ti trovi a Londra, Tokyo, Pechino, New York Francoforte, Parigi, Milano. Sono i cosiddetti “non luoghi”. E poi sono state create le zone residenziali, i dormitori tutti uguali – casette col giardinetto o alveari multipiano – a grande distanza dal luogo di lavoro o da dove sono disponibili i servizi, tanto c’è la macchina. E poi i centri commerciali, altre aree in cui sono concentrati negozi, ristoranti, bar cinema. E così si afferma la zonizzazione: si abita da una parte, si lavora in un’altra, si usa il tempo libero in un’altra. L’uniformità si afferma sulla diversità, quella che ha sempre caratterizzato il tessuto urbano per secoli, quando le diverse funzioni erano spazialmente distribuite, come nei paesaggi naturali e quelli agrari. E così oggi si cerca di correre ai ripari, e si propone la “città dei 15 minuti”, una città in cui il cittadino può trovare tutti i servizi e le funzioni di uso più frequente a non più di 15 minuti a piedi da casa sua. E 15 sono già tanti, perché l’urbanistica sostenibile parla di cinque minuti. Cioè, guarda caso, si cerca di riproporre l’assetto della città medievale, dove tutte le attività, artigianali, commerciali e di qualsiasi altro tipo erano diffuse e disponibili sotto casa, e ciò implicava anche una maggiore diversità sociale: la ghettizzazione socio-economica che caratterizza le nostre città oggi era molto meno marcata.

Oggi siamo di fronte a un bivio, che potrebbe portare a una alterazione di grande portata, anche visiva, del paesaggio. Infatti, da qualche tempo si è aperto un dibattito che investe un tema estremamente critico per lo sviluppo dell’umanità, il dibattito sull’impatto sul paesaggio degli impianti per la produzione di energia rinnovabile. Si tratta di un tema critico perché l’impatto di questi impianti, in termini di occupazione di territorio, è piuttosto rilevante e non può che esserlo se vogliamo scongiurare il pericolo di un mondo sconvolto dai cambiamenti climatici e dalla perdita di biodiversità, sull’orlo di una sesta grande estinzione.

Quando nacque l’agricoltura, che ha integrato l’uomo nel paesaggio in maniera visivamente evidente, cambiandone l’aspetto, sostituendo foreste, aree umide e praterie con campi coltivati, eravamo molto pochi, e la trasformazione del paesaggio fu molto limitata in termini spaziali. Inoltre, per cultura e per necessità si trattava di una trasformazione che si manteneva dentro le regole della natura: chiusura dei cicli e valorizzazione della biodiversità. Certo, non sempre, ci insegna la storia, ma in generale è andata così fino alla rivoluzione industriale.

Oggi siamo quasi otto miliardi e i consumi di risorse pro capite di almeno metà della popolazione mondiale sono ben maggiori di quelli medi preindustriali. Siamo alle soglie di una catastrofe ambientale, un toro le cui corna sono il riscaldamento globale e la perdita di biodiversità. Per spuntare il primo corno occorre sostituire le fonti energetiche fossili con le rinnovabili e fra queste la parte del leone dovranno farla il fotovoltaico e l’eolico. Sono impianti, quelli eolici, il cui posizionamento è governato dalla presenza di vento abbondante, e questo si trova sulle creste dei rilievi montuosi. Cioè proprio dove sono più visibili. Per questo sembrano molto più invasivi di quanto non sarebbero se si potessero nascondere a fondovalle. Sono impianti che hanno un impatto moderato sull’ecosistema su cui insistono: le piante che prima crescevano possono continuare a crescere e la fauna preesistente può continuare la sua solita vita. Qualche problema per i volatili migratori, ma ormai ci sono dei sistemi automatici che bloccano le pale quando arriva uno stormo di uccelli. Fanno rumore, questo sì, e non si sa molto sull’effetto del rumore sulla fauna. Certo non piace agli uomini, ma basta vivere a più di 500 metri dall’aerogeneratore, e il rumore sparisce. Dunque la sola, o la principale controindicazione dei parchi eolici sembrerebbe di natura estetica. E per ragioni estetiche, per l’alterazione della vista panoramica, alcuni si battono contro l’installazione dei parchi eolici. Ci si potrebbe chiedere, legittimamente, come mai la costruzione di autostrade, viadotti, tralicci dell’alta tensione et similia non abbia generato la stessa opposizione, visto che hanno ferito il panorama in modo in molti casi più pesante e soprattutto per una porzione del territorio ben maggiore.

A ogni modo, il problema si va affievolendo grazie allo sviluppo tecnologico che ha permesso lo sviluppo di parchi eolici off-shore, a mare, lontano dalla costa. Certo, bisogna assicurarsi che non creino problemi all’ecosistema marino, e – specie quelli galleggianti, necessari dati i profondi fondali che caratterizzano le coste della nostra penisola – sembra possano avere addirittura effetti benefici. Rimane il problema, sollevato dai puristi del panorama (non del paesaggio, che spesso non sanno cos’è), di punte di spillo dell’altezza apparente di circa un centimetro che si stagliano nel lontano orizzonte nei giorni di eccezionale visibilità. Mah.

Ben più problematico è il tema degli impianti fotovoltaici a terra, anche se la percentuale del territorio italiano che dovrebbero occupare è ridottissima, si può stimare inferiore allo 0,2%, e si considera solo la superficie agricola, la parte interessata non supererebbe lo 0,3-0,4% della terra coltivata totale. Il fatto è che i campi fotovoltaici finiscono, in gran parte, per essere posizionati in vista (non possono essere troppo lontani dalle linee elettriche esistenti), e sono visibili da lontano. Insomma, qualunque strada percorriamo, rischiamo di imbatterci in un qualche impianto fotovoltaico, più o meno grande, così come qualunque strada percorriamo è probabile che ci si imbatta in un campo di grano, o di mais. Di per sé non è questo il problema, ci si adatta, ci si deve adattare – non è un capriccio ma una necessità – all’impatto visivo come del resto si è fatto con le autostrade e gli elettrodotti. E come molto prima ci si è adattati alla sostituzione di una foresta con un campo di girasoli o di grano. Il problema è che all’impatto visivo di un campo fotovoltaico si aggiunge quello paesaggistico, cioè quello della alterazione dell’ecosistema preesistente, del fitness landscape. Piante che prima crescevano, coltivate o naturali, non crescono più o crescono in modo diverso, e questo si trascina una trasformazione di tutta la fauna, dagli insetti agli uccelli. Con in più, se il campo fotovoltaico sostituisce un campo prima coltivato, la riduzione della produzione agricola, che rende il paese più dipendente dalle importazioni, cioè riduce la resilienza della filiera alimentare.

Per superare questo effetto negativo da qualche tempo si propone una soluzione di compromesso: l’agrivoltaico, che consiste nella sistemazione dei pannelli a una certa altezza dal suolo sopra un campo agricolo produttivo per permettere l’uso delle macchine, e un po’ distanziati per lasciare più sole alle piante sottostanti. Una soluzione economicamente attraente che – si fa osservare – potrebbe fermare, addirittura invertire, l’esodo dalle zone rurali.

Si tratta di una prospettiva destinata ad avere un impatto, sul paesaggio dei paesi sviluppati, confrontabile a quello che ha avuto l’agricoltura quando eravamo di meno, su questa terra. La sfida è di costruire un paesaggio nuovo, come nuovo rispetto a quello naturale è stato quello agricolo, che però non abbia effetti nefasti sull’ambiente. Un paesaggio che – anche se introduce nuovi elementi nel panorama – mantenga o addirittura ripristini quel dialogo armonico che deve esserci fra uomo e ambiente, con l’uomo parte integrante dell’ambiente. Per costruire il paesaggio agrario precedente l’avvento della agricoltura industriale, quel paesaggio in cui vengono rispettati i cicli di materia e viene mantenuta, se non stimolata, la biodiversità, c’è voluto del tempo, tanto tempo, destinato a un continuo processo di prova e sbaglia. Un processo di prova e sbaglia che si è realizzato sempre localmente, tendendo alla soluzione ottimale per un dato luogo, clima, coltura, cultura, sviluppo tecnologico.

Oggi, a causa dell’urgenza che ci impone la rapidità con cui il clima cambia, dobbiamo contrarre i tempi del processo di prova e sbaglia. Non sappiamo esattamente cosa succede, sul medio-lungo termine, quando mescolo, per esempio, filari di vite con filari di pannelli fotovoltaici. Non sappiamo in che misura l’ecosistema locale sarà modificato dalla presenza di superfici captanti e ombreggianti.

Si sa, per esempio (A. Colantoni et al., Linee guida per l’applicazione dell’agro-fotovoltaico in Italia, Università degli Studi della Tuscia 2021), che gli impianti agro-fotovoltaici con pannelli elevati dal suolo possano rappresentare anche nuovi habitat idonei alla nidificazione e all’attività di predazione necessaria per il naturale ciclo biologico degli uccelli. Ma si sa anche che per alcuni insetti le pannellature fotovoltaiche appaiono alla stregua dei corpi d’acqua e vi depositano le loro uova che, per disidratazione, periscono, vanificandone quindi lo sforzo riproduttivo. Si sa anche che la luce riflessa e polarizzata dalle superfici fotovoltaiche può ingannare quegli insetti, come le api, il cui senso di orientamento sia condizionato dalla polarizzazione della luce naturale.

Allo stesso tempo, ci sono esperienze agricoltura-fotovoltaico-apicoltura in Europa e negli U.S.A. che testimoniano un buon livello d’integrazione dei sistemi produttivi circa le relazioni tra api e pannelli fotovoltaici, se si prendono adeguati provvedimenti.

Tutti questi fenomeni vanno prima di tutto individuati e poi si possono trovare delle soluzioni, e in molti casi si sono trovate. Il punto è che bisogna, assieme alla velocità necessaria di espansione della superficie fotovoltaica per sostituire le fonti fossili, garantire un impegno scientifico intenso volto al monitoraggio di tutti gli effetti possibili della introduzione dell’agrivoltaico sull’ecosistema preesistente.

Questo, del resto, sembrerebbe l’approccio seguito dal Ministero della Transizione Ecologica nelle sue linee guida al finanziamento dell’agrivoltaico, secondo quanto indicato dal PNRR. Si prescrive, infatti, che per ogni impianto agrivoltaico si preveda “la contestuale realizzazione di sistemi di monitoraggio che consentano di verificare l’impatto dell’installazione fotovoltaica sulle colture, il risparmio idrico, la produttività agricola per le diverse tipologie di colture, la continuità delle attività delle aziende agricole interessate, il recupero della fertilità del suolo, il microclima, la resilienza ai cambiamenti climatici” e inoltre “si dovrebbe garantire sugli appezzamenti oggetto di intervento che almeno il 70% della superficie sia destinata all’attività agricola, nel rispetto delle buone pratiche agricole”.

Da quanto detto sopra sembrerebbe che tutto sia a posto, che gli ecosistemi possano non essere alterati dalla diffusione delle nuove tecnologie se seguiamo le regole opportune e prendiamo le decisioni giuste e che quindi si possa sicuramente costruire un nuovo paesaggio caratterizzato dall’armonia. Purtroppo non è così. Non è così perché il paesaggio è quello che si definisce un sistema complesso, e come tale intrinsecamente imprevedibile nella sua evoluzione temporale nel medio-lungo periodo e nelle sue manifestazioni locali. L’esempio più dimostrativo della imprevedibilità locale e sul lungo periodo di un sistema complesso è la nostra atmosfera. Le previsioni meteorologiche sono sempre soltanto probabilistiche, poco o niente affidabili oltre una decina di giorni, con eventi locali spesso imprevisti. Non siamo quindi in grado di predire quali effetti emergeranno dalla transizione energetica, possiamo solo cercare di monitorare e aggiustare il tiro via via se necessario.

Tuttavia, sia pure di fronte all’incertezza, ci piaccia o no dobbiamo decidere. Possiamo imboccare la strada del continuare come sempre, e precipitare in un mondo invivibile, in una sesta estinzione, oppure batterci per evitarlo, e imboccare una strada diversa. Una strada diversa che inevitabilmente disegnerà un paesaggio diverso da quello che ci ha portato a questa situazione, e diverso da quello che c’era prima dell’inizio della rivoluzione industriale, e non esattamente delineato. Dobbiamo batterci affinché questo paesaggio sia migliore, oltre che diverso, da quello attuale, perché dovrà essere caratterizzato dalla nostra capacità di evolverci come parte integrante dell’ambiente, e non in opposizione. Bisogna che il nuovo paesaggio esprima un nuovo equilibrio fra noi e l’ambiente, una nuova armonia, e per questo non ci si può aspettare che i panorami su cui ci affacceremo siano uguali, o seguano le stesse regole formali di quelli che stiamo andando a sostituire. Dovremo accettare, e lo faremo come lo abbiamo fatto per i campi ordinati al posto della foresta o della prateria, passando dalla caccia-raccolta all’agricoltura, che il panorama cambi; lo faremo come lo abbiamo fatto quando abbiamo segnato il territorio con ferite profonde quali le autostrade, le linee ferrate, gli elettrodotti, i canali di irrigazione, che ci hanno permesso di migliorare la nostra qualità della vita, anche se a un prezzo troppo alto che ora siamo costretti a pagare.

Certo, la nostra storia, la nostra diversità culturale, espressa anche dai manufatti che abbiamo costruito, deve essere parte integrante del paesaggio, lì dove si manifesta, avendo cura di preservarne la testimonianza, nello stesso modo e con la stessa priorità con cui dobbiamo integrarci nell’ecosistema in cui operiamo.

 

Immagine:  Azzedine Rouichi (Unsplash)

Articolo pubblicato su connettere.org ottobre 2022