PuntoSostenibile

Dalla caverna alla casa ecologica e dalla casa ecologica a…

Intervista a Federico Butera

di Marco Moro
pubblicato il 23/06/2025

Dalla caverna alla casa ecologica è un best & long seller che esce per la prima volta nel 2004, un momento che, grazie anche alla di poco precedente pubblicazione di Architettura Sostenibile di Dominique Gauzin-Müller, segna il nostro ingresso nell’ambito tematico del progetto e del costruire sostenibile. Ingresso dalla porta principale, se anche dovessimo guardare solo ai numeri. Uscire con il libro giusto nel momento giusto; quando la scommessa riesce al di là dei numeri c’è l’impatto culturale, che nella nostra identità di editori “schierati” spesso vediamo come il primo obiettivo. Ovviamente il primo devono essere le vendite, altrimenti la militanza – se così si può definire – serve a poco, ma questo è un altro discorso. Torniamo alla “caverna”. In quella prima edizione il libro di Federico Butera si presentava come un saggio, privo di apparati iconografici, sapevamo però che l’autore aveva “nel cassetto” un repertorio affascinante di immagini storiche sul tema del comfort abitativo. Prima o poi la versione illustrata doveva uscire, e nel 2014 aggiornata anche nei contenuti si realizza quella che tra di noi chiamavamo “l’edizione celebrativa”. Oggi di Dalla caverna alla casa ecologica non sappiamo nemmeno più quante volte è stato aggiornato e/o ristampato. A oltre vent’anni dalla prima edizione parliamo con Federico Butera dell’attualità dei temi trattati nel libro e della formula utilizzata, che all’inizio aveva perfino suscitato qualche perplessità all’interno della casa editrice. Fortunatamente non ci siano fatti condizionare dall’abitudine a format più ordinari, e così siamo arrivati a oggi.

Federico, per tutti “il professor Butera”: non mi soffermo sul tuo curriculum perché questo da solo potrebbe essere l’oggetto di un libro. Parliamo quindi dell’evoluzione avvenuta dal 2003 a oggi in diversi ambiti che comunque hanno a che fare con quanto racconti nel libro. E partirei da un aspetto più strettamente editoriale. Il libro si apre con un prologo di pura science fiction, anzi forse più correttamente oggi si direbbe di climate fiction. Un’idea perfetta per “portare dentro” al libro i lettori. In quel prologo descrivi uno scenario di blackout, qualcosa che abbiamo da poco visto ripetersi in Spagna. Cambieresti qualcosa in quel racconto?

L’ispirazione era venuta dal blackout verificatosi in Italia nel 2003, e oggi lo scriverei diversamente perché le cose sono cambiate. In quel racconto manca un elemento centrale ed è l’attuale assuefazione o dipendenza da internet. In Spagna ha significato restare per qualche ora totalmente disconnessi dalla rete, qualcosa che allora non c’era e sarebbe interessante sapere come è stato vissuto, dai ragazzi spagnoli in particolare. Ma l’impatto maggiore si ha sicuramente su tutti quei servizi cui accediamo attraverso la rete. In quelle ore, per esempio, nessuno ha comprato più nulla. Oggi la faccenda quindi sarebbe ancora più drammatica, più complessa, rispetto al 2003. Tutto quello che descrivevo allora rimane vero, ma si aggiungono altre cose: per esempio, anche il telefono non ha funzionato, mentre allora era ancora analogico e su rete autonoma, oggi è quasi tutto su fibra. Allora si spegnevano gli elettrodomestici, l’ascensore, l’impianto di condizionamento. Oggi siamo enormemente più esposti, siamo in una situazione di totale assenza di ridondanza, caratteristica che è alla base della capacità dell’ecosistema di essere sopravvissuto per centinaia di milioni di anni. Noi non siamo ridondanti, per un motivo molto semplice, perché la ridondanza è contro le leggi del mercato. Il modello in cui siamo inseriti tende esclusivamente alla massimizzazione dell’efficienza e quindi a evitare ogni spreco. La ridondanza contiene un elemento di spreco.

È come dire che in questo modello non possiamo permetterci di avere un “sistema di riserva”, perché se ne starebbe lì, in attesa di essere utile. Ma realizzarlo costa e nel frattempo chi lo paga? Sarebbe un investimento fermo, che non produce utili.

Infatti, in questo modello economico che punta al rendimento immediato il sistema di riserva non ce lo potremmo permettere. Il caso spagnolo è emblematico: si sono lanciati nella realizzazione di un sistema energetico nuovo, diverso dal precedente, senza fare quegli investimenti che sarebbero stati necessari a rendere ridondante il sistema stesso. Perché, guarda caso, come da noi l’azienda che dovrebbe effettuare questo investimento è privata. C’è, come da noi, una partecipazione statale, ma ciò che comanda è l’interesse degli azionisti. Tutto questo ci rende ancora più esposti e dipendenti dal sistema in essere.

Altro scenario. Negli anni si sono succedute tante definizioni che, dopo quella di “casa ecologica”, hanno connotato l’evoluzione di modelli e approcci al tema della sostenibilità dell’ambiente costruito. Abitare smart, abitare sostenibile, abitare green e così via: secondo te parlare di “casa ecologica” ha ancora oggi un valore rispetto alle tante possibili etichette dotate di emivita più o meno breve? Prendiamo la prospettiva della domotica, di cui nel tuo libro parli e che a me pare un tema che è stato ed è tuttora sovra comunicato ma che vedo in penetrazione un po’ lenta, o se vogliamo molto superficiale nel sistema casa, che ha una forma di resistenza data dalla sua fisicità.

E in effetti che cosa può fare la domotica? Solo alcuni sistemi di controllo, “Alexa accendimi la luce”, forse qualcuno lo fa, ma questo sembra avere a che fare più con un’idea banale di comodità che di comfort inteso nel senso più compiuto. Il punto è questo: inizialmente la definizione di casa ecologica era abbastanza chiara perché si riferiva ai concetti dell’architettura bioclimatica. La casa doveva essere capace di adattarsi alle condizioni ambientali e fornire un comfort, a volte a condizioni estremizzate, addirittura facendo a meno dei sistemi di riscaldamento. In quel momento però non ci si stava affatto occupando di un altro aspetto, ovvero del contenuto di emissioni dei materiali. Isolamenti molto spessi che potevano consentire di avere la casa autonoma dal punto di vista termico non erano valutati come un problema. Ricordo un intero gruppo di abitazioni totalmente privo di impianto di riscaldamento in Svezia! Iniziare a considerare invece anche questo aspetto ha rappresentato un punto di svolta. Se vogliamo definire oggi cosa dovrebbe essere una “casa ecologica” troverei solo una metafora: la barca a vela con il pilota automatico. La barca a vela si muove in funzione delle condizioni ambientali (venti, correnti…), ha un obiettivo che comunque è quello di garantire un comfort a chi la “abita” per arrivare a una determinata meta. Fino a ieri nell’architettura bioclimatica tutto questo mi richiedeva di avere uno skipper abile, oggi lo faccio con un pilota automatico. Questo potrebbe essere il passaggio finale con in più però un'enfasi molto forte sui materiali, che devono essere a basso impatto e con un ultimo elemento che prima non veniva sufficientemente considerato. La casa veniva vista come isolata, come se fosse la “casa di campagna”, considerata in sé e non nel contesto in cui è inserita. Non è così ovviamente, la casa è ormai prevalentemente dentro un centro abitato e con questo si relaziona. Bisogna perciò tenere conto di questa relazione, ovvero la casa è parte di un metabolismo più ampio, quello dell’insediamento di cui fa parte.

Torniamo al libro: la storia che racconti attraverso l’evoluzione del concetto di comfort abitativo è una storia di come cambia il concetto stesso di “abitare”. In questo vastissimo scenario quali sono stati secondo i momenti in cui si sono verificate delle svolte fondamentali? Cose per cui si possa parlare di un prima e un dopo.

I tipping points dell’abitare? Ne ho individuati due. Il più importante in assoluto è rappresentato dal vetro alle finestre che cambia completamente la natura della casa, da un luogo rifugio privo di ogni relazione con il mondo esterno, perché non potevi aprire la finestra altrimenti entrava il vento gelido, diventa un luogo piacevole in cui hai luce del sole, puoi ricavarti i tuoi spazi personali perché non sei più in un buco buio ma in un posto in cui guardi fuori. Dal punto di vista anche di psicologia sociale è una svolta, perché puoi intanto usufruire della luce e del calore solare che migliora il comfort dell’ambiente a seconda dell’esposizione e soprattutto è lì che inizi a immaginare la casa come il luogo dell’“eterna primavera”, in cui tieni la temperatura che ti aggrada perché puoi regolare tra estate e inverno, tenere fuori o fare entrare l’esterno. E quindi non hai più solo il camino – che non riscalda l’aria ma solo la parte della tua superficie corporea che è esposta alla radiazione della fiamma – ma arriva la stufa, che ti riscalda l’aria. La stufa senza il vetro alla finestra non sarebbe potuta esistere. L’altra svolta importantissima è l’energia elettrica che cambia tutto a partire dalla luce. L’illuminazione a gas, che pure esisteva, produceva un puzzo tremendo ed era in totale contraddizione con il comfort termico, visto che dovevi continuamente aprire la finestra per cambiare l’aria. Già questo cambia radicalmente il modo di vivere la casa, ma poi ci sono tutte le altre cose che l’elettricità porta con sé: la connessione con il modo esterno attraverso la radio, gli elettrodomestici. È una rivoluzione che cambia la qualità del vivere in casa in modo straordinario. Due innovazioni che ti spingono sempre di più a star dentro casa, perché ci stai bene. Poi la televisione fa il resto, fino ad arrivare a oggi quando, se vuoi, puoi anche svolgere tutta la tua vita sociale rimanendo in casa. Di fatto, progressivamente queste due sole innovazioni dopo aver reso vivibile la casa, oggi ti spingono a rinchiuderti dentro.

Nell’ultima edizione del tuo libro affronti anche la dimensione urbana del comfort. Quali sono secondo te le politiche più efficaci, anche in rapporto alle risorse investite, per realizzare interventi su sicurezza e salubrità degli spazi esterni? Ancora oggi nel quadro di interventi di rigenerazione urbana la qualità dello spazio pubblico passa più da interventi di arredo che da strategie integrate per la qualità ambientale. Quali sono i punti irrinunciabili in progetti o politiche che puntino con determinazione a questo obiettivo?

Ecco, a proposito di città, l’idea di smart city di cui tanto si è parlato fino qualche anno fa, da questo punto di vista non serve assolutamente a nulla. Perché ha l’obiettivo di massimizzare l’efficienza, per esempio dei flussi di traffico, per consentire di far girare più veicoli senza perdite di tempo. Ti permette di non cambiare nulla nella città, solo di fare tutto quello che già fai, ma in modo più efficiente. L’abitare invece va visto attraverso l’analisi del metabolismo urbano: la città respira, vive, ha bisogno di energia, di acqua e di tanti altri beni che servono, e in uscita abbiamo flussi di rifiuti e altro. Tutto questo vale a un’altra scala anche per l’edificio. Allora il punto è pensare la città in termini di relazioni e forse l’idea più rivoluzionaria emersa in questi anni è quella della “città dei 15 minuti”, perché paradossalmente ti riporta fuori. Se hai il negozio sotto casa… non fai la spesa online, e questo vuol dire favorire le relazioni perché questo “fuori” non è fatto solo di servizi, ma può avere una maggiore gradevolezza se, nel frattempo, togliendo spazio all’automobile ricavi maggiori aree da sistemare a verde. E questo ha una ovvia ricaduta anche dal punto di vista ambientale, attenuando l’effetto delle ondate di calore. Il ruolo del verde e soprattutto dell’albero in città in questo senso va visto e comunicato correttamente, e non è quello di assorbire CO2, cosa su cui può dare solo un contributo, ma quello di attenuare il riscaldamento dell’ambiente che vuol dire anche ridurre la necessità di consumare energia per il condizionamento e quindi evitare quel paradosso per cui più caldo fa e più calore immetto nell’ambiente per raffreddarmi. Quello della città dei 15 o 10 minuti (o perfino 5 come si sta realizzando in un quartiere di Copenaghen) è anche un modello che va in sinergia con l’idea di economia circolare che nella sua espressione più virtuosa significa durabilità dei prodotti e quindi, in ultima analisi, riduzione della produzione di rifiuti. Come fai quindi quando ti trovi di fronte a un sistema città così complesso di cui non sei minimamente in grado di governare tutte le parti, se non puoi capire attraverso quali regole siano interconnesse. Allora se pensi la città come sistema complesso di relazioni e in rapporto al suo metabolismo, come se si trattasse di un organismo vivente, come un ecosistema, devi usare strumenti pianificatori diversi, pensati su una logica di maggiore flessibilità, senza la staticità che tuttora caratterizza gli strumenti di piano in uso. E investire quante più risorse possibili nel monitoraggio dei fenomeni, per avere una capacità di intervento quasi in tempo reale. Con l’attuale assetto istituzionale questo è impossibile, richiede una vera rivoluzione culturale. Ma rimane vero che se non la fai la città continuerà a vivere di vita propria in maniera non controllata e non controllabile. E siamo al punto: tutto dipende da chi decidi che debba decidere. Il pubblico o il privato? L’interesse collettivo o il mercato? Oggi il risultato è una dicotomia senza precedenti tra il costo per realizzare un alloggio e il prezzo con cui viene proposto sul mercato. Totalmente priva di senso. Quindi, città per chi? Questa è la domanda a cui oggi va ancora data una risposta.

Immagine: Amel Majanovic (Unsplash)