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PuntoSostenibile

Scenari ambientalmente e socialmente sostenibili in Africa

di Gianni Silvestrini
pubblicato il 02/03/2024

Quando parliamo di prosperità, riprendendo l’efficace immagine del libro di Tim Jackson Prosperità senza crescita, ci riferiamo ai paesi industrializzati. Per i paesi in via di sviluppo, l’auspicio è che il loro percorso evolutivo eviti gli errori da noi commessi, ma certamente in uno scenario di crescita.

Da questo punto di vista, concentrandoci sul versante energetico, è auspicabile che l’aumento della domanda venga progressivamente sempre più soddisfatto dalle fonti rinnovabili riducendo l’estrazione di carbone, petrolio e gas che, in diversi casi, ha comportato significative conseguenze sociali e ambientali.

Prosperità senza crescita

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Focalizzandoci sull’Africa va sottolineato il contributo (non privo in alcuni casi di pesanti controindicazioni) dell’idroelettrico che garantisce il 17% della domanda, mentre quello deil solare e dell’eolico, che pure godono di un enorme potenziale, è ancora minimo.

Guardiamo all’energia dal vento. Nel continente sono in funzione solo 9 GW, un valore inferiore a quello dell’Italia. Le installazioni esistenti rappresentano lo 0,2% del potenziale del continente, stimato in 33.000 GW, quantità che sarebbe in grado di soddisfare 250 volte l’attuale fabbisogno di energia elettrica africano (pari a circa 700 TWh/anno).

Stessa sconsolata analisi per il solare.

 

L’Africa possiede il 40% del potenziale mondiale, ma garantisce meno del 2% della capacità globale di generazione di elettricità solare.

Tutto ciò, mentre oggi sono ben 600 milioni le persone, ovvero il 43% della popolazione totale del continente, che non hanno accesso all’elettricità. Secondo un rapporto dell’Agenzia internazionale dell’energia, Iea, per consentire l’accesso universale ai servizi energetici moderni entro il 2030 e l’attuazione degli impegni climatici, bisognerebbe garantire la fornitura di elettricità a 90 milioni di persone all’anno, il triplo del tasso attuale, un obiettivo difficilmente realizzabile.

 

Come ribaltare questa situazione? Secondo la Iea l’estensione delle reti elettriche nazionali sarebbe l’opzione meno costosa per quasi il 45% dei casi. Ma nelle aree rurali, dove vive oltre l’80% delle persone prive di elettricità, le soluzioni più praticabili sono rappresentate dalle mini-reti e dai sistemi autonomi a energia solare. Ed è probabile che la soluzione decentrata riesca a fornire l’accesso all’elettricità alla maggioranza della popolazione che ne è esclusa.

Ma allarghiamo lo sguardo sull’evoluzione delle popolazioni.

Considerando gli scenari futuri dell’Africa e quelli globali va considerato il fatto che l’età mediana in Africa è 19 anni, contro i 38 anni in Cina e i 44 anni in Italia. Si stima che nel 2050 un quarto degli esseri umani e un terzo dei giovani 15-24 sarà africano.

 

Il ruolo dei combustibili fossili

L’Africa ospita circa il 30% delle riserve minerarie mondiali, l’8% del gas naturale mondiale e il 12% delle riserve mondiali di petrolio.

Secondo il mondo dell’Oil&Gas il continente potrebbe “diventare centrale per il futuro dell’Europa, e non solo per l’Europa”. Ma quali sono le aziende più interessate alle risorse africane? Il più grande sviluppatore di nuove risorse upstream in Africa è la francese Total seguita dalla compagnia statale algerina di petrolio e gas, Sonatrach, con 1,75 miliardi di barili di petrolio equivalente, e dalla italiana Eni, con 1,32 miliardi di barili di petrolio equivalente.

Affinché l’Africa realizzi il suo potenziale energetico, dovrà però tener conto di concorrenti come il Qatar e gli Usa che si stanno muovendo rapidamente per espandere la loro produzione. Se l’Africa è in ritardo, la sua finestra di opportunità per rifornire l’Europa potrebbe chiudersi, anche perché la domanda si sta spostando verso fonti rinnovabili. La Iea stima infatti che entro il 2030 la Ue potrebbe utilizzare il 20% in meno di gas rispetto al 2021 sulla base delle politiche attuali.

 

In realtà, sul fronte della produzione dei combustibili fossili ci sono anche segnali preoccupanti. Secondo il Production Gap Report 2023, rapporto dell’agenzia delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) dal titolo inequivocabile: Phasing down or phasing up? Top fossil fuel producers plan even more extraction despite climate promises, nel 2030 si potrebbe arrivare a un raddoppio della produzione. Insomma, malgrado gli impegni climatici, non è escluso che il ruolo dei combustibili fossili aumenti invece di diminuire.

 

Scenari possibili di sviluppo delle rinnovabili in Africa

I prossimi decenni saranno caratterizzati dalla necessità di utilizzare su larga scala le fonti rinnovabili anche in Africa, grazie alla crescente competitività di queste tecnologie.

Secondo uno studio di Irena (Ferroukhi R. et al. “Could the Energy Transition Benefit Africa’s Economies?”, 2022), la transizione energetica potrebbe creare 9 milioni di posti di lavoro aggiuntivi entro il 2030. In particolare, in uno scenario climatico, l’occupazione passerebbe da circa 0,35 milioni nel 2020 a 4 milioni entro il 2030 e oltre 8 milioni entro il 2050. Si tratta di un aumento dei posti di lavoro quadruplo rispetto ad uno scenario senza transizione energetica.

In effetti le rinnovabili potrebbero coprire oltre l’80% dell’incremento della domanda di energia, che viene stimato del 30% al 2030.

 

Ovviamente un simile passaggio comporterebbe profondi cambiamenti nell’attuale sistema fossile. I settori più colpiti dalla perdita di posti di lavoro sarebbero infatti quelli legati all’estrazione mineraria, alla raffinazione, alla distribuzione/logistica e alle centrali termoelettriche. Nello scenario climatico il settore dei combustibili fossili darebbe lavoro a 2,1 milioni di persone in meno nel 2030 e 4,2 milioni in meno nel 2050 rispetto alle previsioni con la prosecuzione delle attuali politiche.

 

È possibile passare dall’esportazione di gas e petrolio a reddito proveniente dalle rinnovabili?

Secondo il World energy Outlook 2023 della Iea i combustibili fossili che attualmente forniscono l’80% della domanda di energia globale potrebbero calare al 73% nel 2030 consentendo di arrivare a un picco delle emissioni globali di anidride carbonica al 2025. L’Agenzia fa inoltre notare che la forte impennata di nuovi progetti di gas naturale liquefatto (Gnl) aggiungerebbe 250 miliardi di metri cubi all’anno di nuova capacità entro il 2030, rischiando di creare un eccesso di offerta. Sulla base di questa ultima osservazione gli ingenti investimenti in corso in Africa sarebbero a rischio sul lungo periodo.

 

Ma anche sul fronte del petrolio, la rapidissima crescita della mobilità elettrica porterà ad una riduzione della domanda mondiale di greggio.

Questi scenari in rapida evoluzione impongono una seria riflessione sulle strategie del continente, anche perché gli scenari climatici comporteranno un fortissimo incremento degli investimenti sulle rinnovabili.

Le prospettive che si aprono vedranno sicuramente una crisi del mondo fossile, anche se i tempi saranno determinati dalla rapidità e dall’incisività delle politiche globali di riduzione delle emissioni e dallo sforzo, anche finanziario, sul fronte dello sviluppo nel continente delle energie pulite.

Secondo un’analisi di McKinsey per consentire questi cambiamenti radicali, tra il 2022 e il 2050 sarebbero necessari investimenti cumulativi in Africa per 2,9 trilioni di dollari (Green energy in Africa presents significant investment opportunities, 17 ottobre 2023). 

 

Una transizione auspicata dalla sensibilità di una parte del mondo ambientalista.

“Quando gli africani possono decidere, la scelta va nella direzione delle energie rinnovabili. Ma i paesi ricchi ci permetteranno finalmente di determinare il nostro futuro? Devono venirci incontro a metà strada invece di legarci le mani dietro la schiena con i gasdotti. Al momento solo il 2% degli investimenti nelle rinnovabili va in Africa. Ciò deve cambiare: le banche per lo sviluppo dovrebbero dare priorità alle rinnovabili, a migliori finanziamenti per l’Africa e alla fine dei sussidi per i combustibili fossili. Il denaro può e deve essere trovato in uno sforzo storico da parte delle istituzioni pubbliche e dei privati per dare priorità a una transizione energetica giusta” dichiara la giovane militante ambientalista Vanessa Nakate che aggiunge “Mentre i leader mondiali parlano di triplicare le energie rinnovabili globali al 2030, devono discutere di finanziamenti all’Africa per quintuplicare la nostra produzione di energia rinnovabile e concordare specifici piani nazionali per eliminare gradualmente l’uso di combustibili fossili”.

 

Che fine ha fatto Desertec?

In realtà, già da tempo l’attenzione sul potenziale rinnovabile in Africa era notevole.

Pensiamo a Desertec, un progetto lanciato dalla Germania nel 2009 per favorire la generazione di energia rinnovabile direttamente nei deserti per poi trasferirne una parte verso l’Europa grazie a reti in corrente continua ad alta tensione.

Secondo le valutazioni fatte allora, entro il 2050 si sarebbe potuto generare abbastanza elettricità rinnovabile nei deserti del Nord Africa e del Medio Oriente da coprire circa due terzi della domanda locale e allo stesso tempo esportare una quantità in grado di soddisfare il 15% della richiesta europea.

Nel frattempo la situazione politica è molto cambiata, anche per l’apparizione delle Primavere arabe. Si avviò dunque un ripensamento sul progetto, la sede venne spostata da Monaco di Baviera a Dubai nel 2015 e si lavorò ad un progetto Desertec 2.0 con un’attenzione maggiore all’incrocio tra domanda ed offerta locale.

Anche questa ipotesi non ha però avuto molto successo e si è quindi ipotizzata la sua trasformazione in Desertec 3.0, un consorzio con funzione di centro studi, formato da aziende impiantistiche o produttrici di tecnologie, ma anche da utility e università con l’obiettivo di soddisfare il fabbisogno europeo di idrogeno verde.

 

Spunta la variabile idrogeno

Per porre fine alla dipendenza dal gas russo, la Commissione europea ha quadruplicato i suoi obiettivi sul fronte dell’idrogeno, portandoli da 5 a 20 milioni di tonnellate nel 2030.

È probabile che una parte considerevole, oltre il 50%, dell’idrogeno verrà importata, con un ruolo significativo da parte dell’Africa. Numerosi progetti sull’idrogeno a basse emissioni di carbonio sono in corso o in fase di discussione in Egitto, Mauritania, Marocco, Namibia e Sud Africa. Alcuni di questi programmi si concentrano sull’utilizzo di energia rinnovabile per produrre idrogeno e poi ammoniaca per i fertilizzanti, il che rafforzerebbe la sicurezza alimentare dell’Africa.

Secondo la Iea la diminuzione globale dei costi di produzione dell’idrogeno potrebbe consentire all’Africa di fornire idrogeno verde all’Europa a prezzi competitivi a livello internazionale entro il 2030. L’Africa potrebbe infatti arrivare a meno di 2 dollari/kg entro una decina di anni.

Uno scenario positivo per l’Africa? Dipende molto dalle modalità di attuazione dei programmi. In una fase in cui le risorse rinnovabili dovrebbero essere indirizzate verso le esigenze energetiche del Continente si rischia infatti un nuovo tentativo di accaparramento neocoloniale delle risorse. Il timore è che la transizione ecologica dell’Ue possa continuare ad alimentare un sistema economico predatorio che privilegi le grandi imprese europee a danno delle comunità locali.

 

Elettricità verde dal Marocco in Europa e idrogeno verde prodotto in Namibia

“La Namibia ha un enorme potenziale per lo sviluppo dell’industria dell’idrogeno verde. Ha vasti spazi inutilizzati e le forti velocità del vento rendono la produzione di energia eolica particolarmente redditizia. Inoltre, l’energia solare ha un potenziale ancora maggiore grazie a oltre 3.500 ore di sole all’anno, quasi il doppio di quanto offre la Germania. Pensiamo quindi che un chilogrammo di idrogeno dalla Namibia costerà eventualmente tra 1,50 e 2,00 euro. Questo sarebbe il prezzo più competitivo al mondo, il che rappresenterebbe un enorme vantaggio in termini di localizzazione per l’idrogeno made in Namibia. Consideriamo che la domanda tedesca di idrogeno è destinata a crescere e serviranno notevoli quantità a basso costo. La Namibia può fornire entrambi.”

 

Le affermazioni della ministra della ricerca tedesca Anja Karliczek sono nette e chiariscono il fortissimo interesse di Berlino per le prospettive nella loro ex colonia che si estende su una superficie grande oltre due volte e mezza quella italiana, in larga parte desertica, dove vivono solo 2,7 milioni di abitanti.

La Germania ha già destinato 10 miliardi di euro per valorizzare questa prospettiva in Namibia.

“La gente pensa all’idrogeno verde da una prospettiva di transizione energetica”, dice il responsabile per il paese africano dello sviluppo dell’idrogeno James Mnyupe, “ma per noi è esattamente l’opposto. Molti paesi altamente industrializzati stanno cercando di raggiungere un ambiente a basse emissioni di carbonio. Mentre in Namibia, almeno in teoria, abbiamo l’opportunità di passare direttamente a uno sviluppo a basse emissioni climalteranti”, aggiunge Mnyupe.

 

Connessioni energetiche tra Africa ed Europa

Un esempio significativo delle evoluzioni in atto tra i due continenti viene dalla proposta della società Xlinks, con sede nel Regno Unito, che mira a installare entro il 2030 in Marocco 10,5 GW rinnovabili abbinati a 20 GWh di batterie, per poi trasferire parte della produzione rinnovabile negli UK attraverso un cavo lungo 3.600 km.

Un progetto di dimensioni più contenute riguarda i rapporti tra la Tunisia e l’Italia.

La prima proposta era di vent’anni fa e aveva l’obiettivo di facilitare l’esportazione di elettricità rinnovabile prodotta nel Sahara verso il nostro paese (era prevista una centrale solare da 1,2 GW). Oggi invece si prevede il trasporto di elettricità non solo dall’Africa verso l’Europa, ma anche nella direzione opposta. Secondo la Banca mondiale, che ha finanziato parte del progetto, l’elettrodotto consentirà alla Tunisia di ricevere elettricità dalla Sicilia fino al 16% del suo fabbisogno.

In realtà, sul lungo periodo l’Africa potrebbe contribuire al processo di decarbonizzazione dell’Europa.

Pensiamo al metanodotto Transmed che garantisce 60 milioni di metri cubi di gas al giorno dall’Algeria, in grado di soddisfare il 30% della nostra domanda, diventando così un tassello strategico dopo la decisione di ridurre drasticamente le importazioni dalla Russia.

Ma, nelle strategie di Eni e Snam, Transmed dovrebbe nei prossimi decenni progressivamente trasformarsi in un idrogenodotto. Infatti l’installazione di grandi impianti solari ed eolici consentirebbe di produrre idrogeno verde attraverso degli elettrolizzatori. Una proposta che ha visto però diverse critiche sulla sua fattibilità tecnica e che pare più una soluzione per consentire la sopravvivenza delle società proprietarie di metanodotti in uno scenario di neutralità climatica al 2050.

 

Gli obbiettivi fossili del Piano Mattei

Secondo la presidente del Consiglio Giorgia Meloni: “Oggi abbiamo un problema di approvvigionamento energetico in Europa e l’Africa, è un produttore enorme di energia […] se aiutiamo l’Africa a produrre energia per portarla in Europa possiamo risolvere insieme molti problemi”.

In realtà il Piano Mattei è il Piano Eni, che ormai è il secondo produttore di idrocarburi del continente (grazie allo sfruttamento di giacimenti dal Mozambico all’Egitto).

Ricordiamo, peraltro, che l’esplorazione petrolifera ha provocato danni giganteschi. In Nigeria, la Commissione ambientale dello Stato di Bayelsa, dove Eni gestisce il terminal di esportazione del petrolio, ha quantificato in 12 miliardi di dollari i danni causati nel tempo dall’estrazione petrolifera da parte delle varie compagnie. Secondo lo studio, almeno 110mila barili di petrolio sono stati versati in fiumi, paludi e foreste. Questa cifra servirebbe per bonificare superfici di territorio altamente contaminate dall’estrazione del greggio.

Il Piano Mattei al momento è poco più di un’enunciazione. Per la struttura istituzionale, lo Stato spenderà circa 2,6 milioni di euro. Una goccia, se si pensa che l’Italia, con l’Ue alle spalle, ha promesso investimenti per oltre tre miliardi di euro nel Continente.

Ma, l’Italia arriva in un contesto che vede i grandi investimenti cinesi, la presenza russa e le rivendicazioni della Turchia.

Una strada difficile, come dimostra il fallimento del memorandum con la Tunisia.

 

Malgrado la forte e incombente presenza dell’Eni, è chiaro che per avere un minimo di credibilità un programma verso l’Africa dovrebbe vedere il coordinamento di molti paesi europei e della stessa Commissione. Un piano europeo con risorse adeguate e una seria politica di collaborazione con i paesi africani rappresenterebbe un opportuno e necessario salto di qualità.

 

Articolo pubblicato su connettere.org 

 

Immagine: Maksim Shutov (Unsplash)