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Sindrome da stanchezza democratica

Quando il futuro sembra buio, la Storia può insegnarci la via

di Annamaria Duello
pubblicato il 17/06/2025

La fiducia nella democrazia vacilla. In settimane in cui l’affluenza a un referendum su diritti e lavoro sfiora appena il 30% e le più alte cariche dello Stato invitano all’astensione, qualcosa si incrina negli animi di chi crede nel potere della collettività. E non riguarda solo l’Italia.

In tutto il mondo, la fiducia nelle istituzioni democratiche e nei leader (di oggi e di domani) sembra sgretolarsi, soprattutto tra i più giovani, tra millennial stanchi e Gen Z disillusi da un sistema che offre sempre meno.

Cosa sta succedendo? Questo avvilimento ha un nome? Qualcuno potrebbe parlare di sindrome da stanchezza democratica, un concetto elaborato dallo storico e scrittore belga David Van Reybrouck. Un fenomeno sociale e politico che riflette una crisi della democrazia e un senso di frustrazione diffuso. Parliamo di una crescente sfiducia nella politica e nei processi democratici, spesso legata alla percezione di distanza tra cittadini e istituzioni e alla tentazione di guardare con favore ad altre soluzioni (spesso autoritarie).

Fenomeno analizzato anche Roman Krznaric nel suo nuovo libro La storia per un domani possibile (traduzione di History for Tomorrow), già autore del molto apprezzato Come essere un buon antenato, vincitore del Premio Demetra per la letteratura ambientale 2024.

La storia per un domani possibile

Innovazioni e cambiamenti sociali che hanno avuto successo. E perché
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Nel suo saggio, Krznaric fa qualcosa di tanto semplice quanto potente: propone di guardare alla storia non solo per evitare di ripetere gli errori del passato, ma per riprendere le buone pratiche con cui l’umanità ha saputo reagire nei momenti di crisi. Perché molte delle sfide che affrontiamo oggi – quell’insieme di crisi interconnesse, da quella climatica a quella economica, che prende il nome di policrisi – sono già apparse in forme diverse nel passato. E spesso sono state superate. Come? Grazie a soluzioni collettive, nate dal basso, da comunità che hanno saputo unirsi e cambiare le cose.

È di questo che parla il nuovo libro di Krznaric. Dieci capitoli per affrontare dieci grandi temi dell’oggi: dalla scarsità d’acqua alle disuguaglianze crescenti, dai rischi dell’ingegneria genetica e dell’intelligenza artificiale fino all’iperconsumismo. E naturalmente, anche la crisi della democrazia, l’intolleranza, la xenofobia… temi che suonano fin troppo attuali in questa Italia del 2025.

Oggi pubblichiamo un estratto dal capitolo “Ripristinare la fiducia nella democrazia”. Una lezione breve ma efficace su come riscoprire il potere della partecipazione collettiva. Prendendo esempio dalla Storia, quella con la S maiuscola. E in particolare da quella delle tribù africane. Perché, contrariamente a quanto spesso si pensa, la democrazia non è un’invenzione esclusivamente occidentale. E perché sono questi esempi a indirizzare la nostra immaginazione e la fiducia per il futuro.


“Le comunità Igbo del sud-est della Nigeria hanno una lunga storia di decisioni comunitarie. Quando gli inglesi entrarono per la prima volta nelle terre degli Igbo nel XIX secolo, non trovarono alcun sovrano tradizionale. Al contrario, esisteva un complesso sistema di assemblee pubbliche a più livelli, con poteri che venivano delegati verso l’alto per le decisioni più importanti. Questa struttura decentrata governava la vita di decine di migliaia di persone. In un’intervista del 1973, un anziano Igbo, Noo Udala, che aveva allora 102 anni, ha spiegato come funzionava:

'Prima dell’arrivo dell’uomo bianco non avevamo un capo che si occupasse degli affari della città. Avevamo però diverse istituzioni che ci aiutavano a organizzare le nostre attività. Se si presentavano casi che riguardavano l’intera città, gli ndi ishi ani, i capi villaggio, si riunivano e discutevano efficacemente, da pari a pari, delle questioni in gioco. Prima di prendere qualsiasi decisione, tutti dovevano essere concordi sulla questione. Tutti i maschi adulti e le donne più anziane avevano il diritto di partecipare alle riunioni a livello di villaggio. Dopo aver preso le decisioni in ambito di villaggio, si retrocedeva sul piano di stirpe, o umu nna. Qui quasi tutti gli adulti, uomini e donne, erano autorizzati a partecipare'.

Questo breve scorcio sulle strutture di governo africane ha per me una profonda importanza personale. Negli anni Novanta ho trascorso alcuni anni in una nota università britannica come co-docente di un corso sulla storia e sulla pratica della democrazia.

In nessun punto del programma di studi si parlava di queste tradizioni democratiche africane: si dava semplicemente per scontato – a torto – che la democrazia fosse un’invenzione occidentale e un dono unico da esportare in un mondo più ampio, pieno di dittatori e despoti. A questa visione errata e colonialistica del mondo si affiancava il presupposto che democrazia significasse necessariamente democrazia rappresentativa, con politici di professione scelti dagli elettori in competizioni multipartitiche che si ripetevano nel giro di pochi anni. Le forme alternative non erano all’ordine del giorno, per esempio la democrazia comunitaria, un modello di autogoverno decentralizzato in cui i membri della comunità discutono apertamente le questioni nelle assemblee locali e in cui le decisioni sono spesso prese per consenso invece che a maggioranza. Djenné-Djenno? Gli Igbo? Per mia grande vergogna, ammetto che non li avevo mai sentiti nominare.

Eppure sono proprio questi esempi – ancora clamorosamente assenti dalla maggior parte dei corsi e dei libri di testo sulla democrazia – a essere fondamentali per il suo futuro. Essi indirizzano la nostra immaginazione verso un modo diverso di fare politica, nel momento in cui la democrazia ha urgentemente bisogno di un rinnovamento radicale.

Il modello occidentale di democrazia rappresentativa è in crisi. Sondaggio dopo sondaggio, appare chiaro che la fiducia nelle istituzioni democratiche e nei politici sta crollando in tutto il mondo occidentale, soprattutto tra i giovani, disillusi da un sistema che sembra offrire così poco; è un fenomeno descritto dallo scrittore e storico della politica David van Reybrouck come sindrome da stanchezza democratica.

Il circo della democrazia moderna, fatto di elezioni pilotate dai media, di politici guidati dall’ego e di decisioni indirizzate dalle aziende, è un catalogo di fallimenti: tre decenni di inazione sull’emergenza climatica, le crescenti disuguaglianze in merito al benessere economico e la precarietà del lavoro, gli alloggi inaccessibili, il crollo del settore sanitario, la violenza armata, il terrorismo. L’intelligenza artificiale e l’hackeraggio delle elezioni stanno compromettendo l’integrità dei processi democratici. Allo stesso tempo, i politici di estrema destra stanno aumentando la presa sui parlamenti e sui poteri giudiziari, minacciando i più elementari diritti civili e politici e annunciando un ritorno ai metodi degli anni Trenta del Novecento. I dati sono chiari: il numero di governi autoritari è in aumento. Secondo il Liberal democracy index elaborato dall’Università di Göteborg, oggi solo 34 Paesi su 179 possono essere classificati come democrazie liberali – il numero più basso degli ultimi 30 anni – mentre oltre la metà della popolazione mondiale vive oggi sotto una dittatura.

La democrazia così come oggi la conosciamo è fragile e sta fallendo. Invece di cercare di aggrapparci al sistema esistente, che dà pochi segni di saper affrontare la nostra epoca di crisi permanente, o di incrociare le dita sperando che qualche dittatore benevolo venga in nostro soccorso, potrebbero esserci altre eventualità democratiche sepolte nella storia sotto i nostri piedi, che attendono solo di essere portate alla luce, come le rovine di Djenné-Djenno?”


Immagine: Leonardo Basso (Unsplash)