PuntoSostenibile

Va’ dove ti porta il marketing

di Marco Moro
pubblicato il 24/04/2025

Sono finite le idee a quanto pare. Dopo aver giocato con parole, concetti, suggestioni, mettendo in campo raffinate (o meno) strategie di coinvolgimento e i piani per attuarle, sembra che la macchina del marketing si stia inceppando proprio sulle parole. I creativi potrebbero essere arrivati al limite e non sapere più cosa inventare. 

Oppure, ma ci credo poco, hanno raggiunto il limite inferiore della decenza e non vogliono scendere più in basso. Forse un sussulto di etica professionale in un settore dove questa idea assume contorni decisamente misteriosi? Fatto sta che da qualche tempo ho la sensazione che ai creativi sia rimasta una sola parola da usare a tappeto: “esperienza”. Vai al ristorante, anche in una semplice trattoria, se ancora esiste e non l’ha già intercettata un food blogger, e pensi di cenare? Idea grossolana, perché quello che ti viene offerta è un’esperienza, sensoriale e culturale al tempo stesso. Mistica quasi. Ma anche nel settore immobiliare: non ti si offrono case, ma una nuova esperienza del vivere a… (aggiungere un posto a caso). Il settore dell’auto è ormai da decenni che invece di prestazioni ti vende altro, esperienze di vita, non di guida. Ma l’apoteosi arriva con il turismo. Vacanza è una parola volgare. Non esiste più la vacanza, esiste solo l’esperienza. Ma cosa stiano diventando queste esperienze non solo lo vediamo quando si parla di overtourism, di proteste e di problemi creati dall’eccessiva pressione turistica, lo viviamo quando a nostra volta diventiamo turisti. Per questo l’abuso della parola “esperienza” nel marketing turistico può trasformarsi in un boomerang, se l’“esperienza” poi risulta molto lontana dalle aspettative che si sono volute creare. Ed evidentemente, a questo risultato ci stiamo arrivando, come racconterà Cristina Nadotti nella nostra nuova uscita della collana VerdeNero Inchieste

Quella del turismo è “un’ideologia tossica”, come la definisce Ferdinando Cotugno nella sua prefazione, che “ci arruola a turno sia come vittime, sia come carnefici, a seconda della settimana e del periodo dell’anno”. Questa presunta locomotiva del Pil italiano è in realtà un sistema che arricchisce pochi e lascia sul campo costi che finiscono per essere a carico della società, ovvero di tutti. È quel “turismo che non paga” che fa da titolo al volume (occhio: non va identificato con il turismo di chi viaggia con budget ridotti e se è un tema “di classe” lo è semmai al contrario) e che l’autrice racconta e analizza in un volume documentato, coinvolgente ed equilibrato, per quanto si può esserlo di fronte a fenomeni che sembrano essere mossi da logiche proprie, che si autoalimentano e sfuggono a qualsiasi tentativo di riportarle a un disegno razionale. Come il capitalismo anche il turismo, sua massima espressione, è qui per restare. Le sue contraddizioni, le più vistose e le meno visibili, così come le possibili strategie di contrasto che si stanno sperimentando sono l’oggetto dell’inchiesta di Cristina Nadotti, mentre si avvicinano le vacanze estive e quelle di Pasqua e la stagione dello sci sono appena finite. Il turismo è qualcosa in cui ci immergiamo rimuovendo il pensiero relativo all’impatto di ciò che stiamo facendo, e del resto la vacanza serve anche a questo, a staccare dalle preoccupazioni. Lungi dal colpevolizzare, Il turismo che non paga indaga, raccoglie voci di esperti, ricercatori, amministratori locali, operatori del settore e di persone. L’autrice usa spesso il paragone tra turismo e crisi climatica, per definire un fenomeno delle cui possibili conseguenze siamo ampiamente avvertiti, e pur facendo già i conti con esse sembriamo non essere in grado di trarne, almeno per ora, maggiore consapevolezza.

E dopo le esperienze cos’altro si potrà ancora vendere? Lancerei la sfida ai creativi, o agli autori comici che forse è meglio.

Immagine: Ivan Aleksic (Unsplash)