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Non solo neve. Montagne immaginarie

Intervista a Michele Sasso

di Paola Fraschini
pubblicato il 24/11/2024

Cosa pensate se vi dico “Montagne immaginarie”? Alle prossime Olimpiadi invernali Milano-Cortina? Sì, va bene… ma non solo, troppo scontato! Il libro di Michele Sasso, giornalista professionista e docente presso la scuola Mohole di Milano, non si focalizza solo sul futuro del turismo della neve, racconta di un territorio “di mezzo”, quello montano ma anche collinare che oscilla tra i 600 e i 2.000 metri, che rappresenta ben il 78% della nostra Penisola e popolato da 13 milioni di persone, sospeso tra un presente incerto e un futuro da inventare. Chi tra voi frequenta la montagna lo sa: si sta trasformando rapidamente, cambia la vegetazione, cambia il clima, gli inverni sono diversi, così come le estati. Ma noi, ostinati, attrezziamo le montagne per farle sembrare sempre uguali, come in una cartolina. Cosa stiamo immaginando per il futuro? Lo chiediamo all’autore di questo saggio inchiesta per la collana VerdeNero.


Montagne immaginarie

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Disponibile anche in versione digitale

Quale filo hai seguito in questo tuo viaggio? Cosa ti ha spinto a scrivere questo libro? 

Ho seguito il filo rosso del racconto dei luoghi, cercando di calibrare ogni aspetto: non solo l’immagine della montagna bella e vincente ma anche quella minore dove si vive e sopravvive. Sono stato spinto a scrivere dalla necessità di una narrazione diversa, che non sia solo quella di eroi che vivono nei rifugi o fanno scelte estreme ma anche di altri gruppi sociali che vivono nelle aree interne lontano dai grandi centri. 

 

Metromontagna, una parola nuova che riunisce ciò che naturalmente ci appare diviso: montagna e città. È un bene o un male? Ci puoi spiegare meglio di cosa si tratta?
 

Filippo Barbera dell’Università di Torino l’ha definita come “una parola nuova, che racchiude in sé un proposito radicale: riunire sotto un unico sguardo ciò che naturaliter ci appare diviso, decostruendo l’alterità tra città e montagna. Questo drastico cambiamento del punto di vista è necessario, in una fase come quella che stiamo attraversando e per un territorio come quello del nostro Paese, caratterizzati entrambi da una crisi della centralità urbana e da un ripensamento dei rapporti tra centri e periferie”. In questo rapporto c’è un tentativo nuovo di costruire un’idea diversa tra queste due “placche tettoniche”: non più la città che sfrutta le cime e le vallate per i propri scopi ma un radicale ripensamento tra, appunto, centri e periferie. Non è né un bene né un male ma un fenomeno della nostra società e un tentativo di “ricucire” la distanza creata negli ultimi 70 anni con lo sfruttamento delle cime esclusivamente per l’industria dello sci.

 

Nel tuo libro scrivi “la restanza mostra le speculazioni e le scelte propagandistiche di una certa pratica culturale che rilancia i borghi per dimenticare i paesi”. Ci vuoi spiegare cosa si intende con il concetto di “restanza”? Che differenza c’è tra borghi e paesi?
 

Restanza per il suo ideatore Vito Teti è un fenomeno del presente che riguarda la necessità, il desiderio, la volontà di generare un nuovo senso dei luoghi. È questo un tempo segnato dalle migrazioni, ma è anche il tempo, più silenzioso, di chi "resta" nel suo luogo di origine e lo vive. La pandemia, l’emergenza climatica, le grandi migrazioni sembra stiano modificando il nostro rapporto con il corpo, con lo spazio, con la morte, con gli altri, e pongono l’esigenza di immaginare nuove comunità, impongono a chi parte e a chi resta nuove pratiche dell’abitare. 

Intorno ai borghi negli ultimi anni si sono sviluppati progetti per i territori che cancellano storia, geografia e rapporti col contesto. Una narrazione che elimina conflitto, comunità, relazioni e abbraccia acriticamente i flussi turistici. Mentre in Italia abbiamo migliaia di paesi che sono la sommatoria di relazioni, comunità, storia, flussi economici che chiedono di sopravvivere e lottano per l’abitabilità quotidiana. 

 

Ma quindi, per dirla con il poeta Franco Arminio, “l’Italia ha un asso nella manica, i suoi paesi, e non lo usa. L’assunto è che l’Italia interna non è un problema, ma una mancata opportunità. La missione è fermare l’anoressia demografica dando forza ai servizi essenziali come scuola, sanità, trasporti. A questa base si aggiungono le azioni di sviluppo locale che in tutte le regioni hanno come fuoco centrale il valore dell’agricoltura e del paesaggio e più in generale della salvaguardia del territorio e delle sue peculiarità” è questa la ricetta per il futuro della montagna?
 

Sì, questo rappresenta un tentativo di creare nuove economie locali che renderanno queste aree autosufficienti, oltre ai turisti mordi e fuggi. Sulle terre alte occorre un nuovo tentativo di comprendere, accettare e adeguarsi per sopravvivere alle ineluttabili trasformazioni del clima, della nostra società e di conseguenza di questi territori. Una nuova narrazione e nuove mappe sociali e politiche. 

 

Chi sono i “merenderos”, cosa rappresentano?
 

Merenderos è un termine slang per indicare chi va in ambiente naturale e spera o pretende di trovare la stessa sicurezza o comodità dell’ambiente urbano, senza il rispetto delle basilari regole. Prendono d’assalto i monti nei weekend, nei giorni festivi o durante la stagione estiva. A questi montanari improvvisati non interessa scoprire la vera essenza della montagna, fatta di contatto con la natura, silenzio, isolamento, intimità, fatica liberatoria, semplicità, rispetto del territorio e tradizioni millenarie. Ai “merenderos” interessa soltanto immortalare il paesaggio con un selfie, mettere piede su un passo alpino e telefonare all’amico per renderlo partecipe dell’impresa, salire in quota senza affaticare i polpacci (con l’impianto di risalita, la bici elettrica o la navetta), arrivare in poco tempo a quel rifugio-ristoro-malga più vicino e facilmente. Rappresentano i nuovi fruitori della montagna senza un glossario di base né un libretto delle istruzioni adeguato a questi territori. 

 

Immagine: Alessio Soggetti (Unsplash)