Perché abbiamo bisogno di una rivoluzione ecologica
E come possiamo realizzarla
Il pianeta può sopravvivere al capitalismo ma la vita non ce la farà, o almeno non come la conosciamo oggi. La sesta estinzione di massa è già in corso, e ciò significa che milioni di forme di vita rischiano di non sopravvivere al capitalismo. Stiamo anche già vivendo la catastrofe climatica, come milioni di persone che abitano nelle aree più vulnerabili del mondo sanno molto bene. Anche il Nord del mondo e perfino la Fortezza Europa sono sempre più colpiti da eventi climatici estremi come inondazioni e siccità, incendi e perdite di raccolti. E allora smettiamola di parlare al futuro: la distopia dei cambiamenti climatici è già iniziata. È stata anche definita dagli scienziati come una nuova epoca geologica, l’Antropocene. È arrivato il momento di chiederci: che fare? E, soprattutto, come?
Forze di riproduzione
Per una ecologia politica femminista
Stefania BarcaPer me la risposta è chiara: serve una rivoluzione ecologica, cioè un cambiamento del sistema realizzato dal basso e guidato dal proletariato ecologico internazionale. In altre parole, i sindacati e i partiti di sinistra dovrebbero cominciare a considerarsi come i possibili soggetti politici di una rivoluzione ecologica globale, costruita sulla base di grandi alleanze sociali (con il mondo della scienza e della cultura, con i popoli indigeni, con contadini e produttori di sussistenza, con migranti e rifugiati, con tutti i lavoratori non pagati dediti alla cura del vivente) al fine di rovesciare la macchina di morte capitalista.
Questo progetto può essere realizzato solo se riusciremo a risolvere un dilemma fondamentale per l’eco-socialismo, un dilemma che da sempre mette in difficoltà i sindacati e i partiti di sinistra: quale relazione è possibile tra politica ambientale e politica del lavoro (o di classe)? Credo che il più grande ostacolo da superare per mettere in moto una politica rosso-verde sia oggi la convergenza storica dei movimenti sindacali con la prospettiva della “modernizzazione ecologica”, fatto che implica la loro divergenza dai movimenti ecologici anticapitalisti. La “modernizzazione ecologica” mira a rendere il capitalismo compatibile con l’ambiente attraverso l’introduzione di tecnologie “pulite” presumibilmente capaci di offrire nuove opportunità di business e allo stesso tempo di creare posti di lavoro “verdi”. Questa visione ha dato ai sindacati la possibilità di sognare una “transizione giusta” che permetta di superare l’economia fossile e i rischi occupazionali associati, senza sacrificare i livelli di occupazione. Tuttavia, la “modernizzazione ecologica” non ha mantenuto le sue promesse finora. Perché? Perché le tecnologie verdi non possono da sole produrre una società giusta. In realtà, esse hanno finito per riprodurre la violenza e le disuguaglianze ambientali che stanno alla base del modo di produzione capitalista. Al fine di renderle redditizie, le infrastrutture energetiche pulite necessarie a produrre energia solare ed eolica – per non parlare dell’energia idroelettrica – stanno venendo implementate su larga scala ignorando i diritti delle comunità locali, delle altre specie e della forza lavoro. Ciò ha generato un gran numero di conflitti ambientali in tutto il mondo, Europa inclusa. Nel modo di produzione capitalista, le tecnologie verdi finiscono per non essere verdi per niente. Inoltre, non sostituiscono i lavori più dannosi per la salute: al contrario, miniere e centrali a carbone stanno risorgendo in tutto il mondo, e ogni possibile fonte di energia fossile (sabbie bituminose, gas naturale, petrolio offshore) viene sfruttata su larga scala. In breve: il capitalismo (verde) non può salvare la vita sul pianeta.
Voglio essere molto chiara su questo punto: il capitalismo verde non può essere una risposta alla crisi ecologica per il semplice motivo che la crisi ecologica non è che l’ennesima forma di conflitto di classe, una lotta di classe su scala planetaria: la più seria e pericolosa manifestazione del conflitto tra capitale e lavoro. La crisi ecologica è una conseguenza delle profonde diseguaglianze create dal capitalismo e dai suoi criteri di valorizzazione, in base ai quali certe forme di lavoro, certe vite, certi luoghi e persino alcune specie hanno meno valore di altre, e possono essere sacrificate. I presupposti della crisi ecologica globale sono da cercare nei processi di attribuzione di valore, che portano sempre a sacrificare qualcosa o qualcuno affinché il sistema possa funzionare. Questo è ciò che ci ha insegnato l’eco-femminismo marxista, mostrandoci le intersezioni tra capitalismo, patriarcato, razzismo, sessismo, colonialismo e specismo su scala globale. Ed è per questo che la rivoluzione ecologica non deve essere solo socialista, ma anche femminista, antirazzista, anticoloniale e antispecista. Questo è ciò che “cambiare il sistema” deve significare per noi.
Abbiamo quindi bisogno che i movimenti sindacali si liberino dei loro pregiudizi coloniali, di genere e di specie, cioè dalla visione patriarcale ed eurocentrica che identifica il soggetto lavoratore con l’operaio maschio, ritenendo irrilevanti i sistemi biofisici e le forme di vita non umane. I movimenti del lavoro devono anche liberarsi dall’assoggettamento a una visione dell’economia che privilegia la produzione rispetto alla riproduzione e alla cura, che attribuisce importanza al valore di scambio piuttosto che ai valori d’uso, che svaluta il lavoro che sostiene la vita in tutte le sue forme piuttosto che distruggerla. Affinché essi diventino soggetti attivi di una rivoluzione ecologica anticapitalista, è fondamentale che i movimenti operai e sindacali superino questa valutazione differenziale del lavoro (e della natura).
L’eco-femminismo marxista (o materialista) ha prodotto riflessioni importanti su tale questione, interpretando il degrado della natura come una conseguenza della svalutazione dei lavori di sussistenza, riproduzione, rigenerazione, riparazione e cura. Questa prospettiva riconosce le molteplici forme che può assumere il lavoro, al di là dell’accezione classica del lavoro salariato, e indica la possibilità di sviluppare una “buona vita” al di fuori dell’economia capitalista. Si tratta quindi di una prospettiva incoraggiante, che attribuisce valore alla capacità delle persone di cooperare tra loro e con la natura nella “produzione della vita”. Questa è la base, il punto zero della rivoluzione ecologica. Il dilemma ecologico del socialismo può essere superato solo immaginando una società in cui a tutte le forme di lavoro viene attribuito lo stesso valore, nella misura in cui offrono un sostegno alla vita.
Ora, la buona notizia è che la rivoluzione ecologica è già iniziata: non c’è bisogno di inventarla dal principio. I suoi semi sono stati piantati in Chiapas e in Rojava, grazie a movimenti politici che hanno riunito rivendicazioni di autonomia, uguaglianza, democrazia radicale, con modi di produzione non capitalisti basati sull’interdipendenza con la Terra. È tempo che gli ecosocialisti europei riconoscano l’immenso valore politico di queste rivoluzioni e le sostengano con ogni mezzo possibile. È tempo di costruire una strategia di solidarietà internazionale fra tutte quelle forze politiche radicali, come il movimento Zapatista o quello confederalista del Kurdistan, coscienti che la vita sulla Terra non sarà mai al sicuro sotto il dominio capitalista/patriarcale/coloniale: i contadini riuniti ne La Via Campesina, il movimento Sem Terra in Brasile, i popoli indigeni di Standing Rock, della Nuova Zelanda o dell’Amazzonia, insomma tutti i movimenti che rappresentano il proletariato ecologico dovunque nel mondo.
Tratto da "Forze di riproduzione" di Stefania Barca, Edizioni Ambiente 2024
Immagine: Nik (Unsplash)