Chi vuole essere un economista?
Kate Raworth e la via per diventare economisti in un mondo che cambia
Essere un economista nell’era della crisi ambientale e del cambiamento climatico non è cosa facile. Significa ammettere che qualcosa è andato storto nel nostro modo di produrre e consumare fino a ora. E significa, soprattutto, mettere in discussione le fondamenta dell’economia tradizionale per scardinarle e riedificarle secondo nuovi principi e obiettivi. Ecco perché il sottotitolo de L’economia della ciambella, il best seller di Kate Raworth che da questo mese ritorna in libreria con una nuova edizione, è "Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo".
È arrivato il momento di fare economia secondo le necessità dei tempi che corrono, che chiedono – anzi gridano – un cambiamento immediato. Raworth, una delle economiste più brillanti dei nostri anni, propone una visione rivoluzionaria: un'economia che metta al centro i bisogni umani e quelli del pianeta.
L'estratto che vi presentiamo oggi è tratto dal suo libro. E racconta il suo percorso, quello di una persona insoddisfatta dalle teorie economiche tradizionali che ha deciso di rimettere in discussione tutto ciò che sapeva per abbracciare un nuovo approccio. Un’economia che non si limita a osservare i numeri, ma che si preoccupa davvero del benessere delle persone e dell’ambiente. Un invito a ripensare le basi del nostro sistema economico, con l'obiettivo di realizzare un futuro in cui prosperità e sostenibilità possano finalmente convivere.
Buona lettura.
L'economia della ciambella
Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo
Kate Raworth“Da teenager degli anni Ottanta provai a comprendere il mondo guardando i telegiornali. Le immagini proiettate quotidianamente nel nostro soggiorno mi portarono ben oltre la mia vita di studentessa londinese e mi rimasero impresse. L’indimenticabile sguardo silenzioso dei bambini dal ventre gonfio nati durante la carestia in Etiopia. File di corpi abbattuti come fiammiferi dal gas di Bhopal. Un buco tinto di rosso che trapassa lo strato di ozono. Una vasta macchia di petrolio che sgorga dalla Exxon Valdez e ricopre le acque incontaminate dell’Alaska. Alla fine del decennio, sapevo solo che volevo lavorare per un’organizzazione come Oxfam o Greenpeace, facendo campagne per mettere fine alla povertà e alla distruzione ambientale, e pensavo che il modo migliore per prepararmi fosse studiare economia e mettere i suoi strumenti al servizio di queste cause.
Così mi iscrissi alla Oxford University per acquisire le competenze che mi servivano. Ma la teoria economica che veniva proposta era frustrante perché partiva da strane supposizioni su come funziona il mondo, mentre glissava sui problemi che avevo più a cuore. Ho avuto la fortuna di avere docenti stimolanti e di grande apertura mentale, ma anche loro erano ingabbiati dal programma di studi che a loro era richiesto di insegnare e a noi di apprendere. Così, dopo quattro anni di studi ho deciso di abbandonare l’economia teorica, troppo a disagio per definirmi un’economista, e mi immersi, invece, nelle sfide economiche del mondo reale.
Ho passato tre anni a lavorare con imprenditori scalzi nei villaggi di Zanzibar, incantata dalle donne che gestivano micro-imprese mentre crescevano i loro bambini senza acqua corrente, elettricità o una scuola nei dintorni. Poi mi spostai su un’isola molto diversa, Manhattan, passando quattro anni alle Nazioni Unite nel team che redigeva lo ‘Human Development Report’, e da lì assistevo ai blocchi dei negoziati internazionali dovuti a evidenti giochi di potere. Partii per realizzare un’antica ambizione e lavorai con Oxfam per oltre dieci anni. Lì fui testimone della precarietà dei lavori offerti alle donne, dal Bangladesh a Birmingham, impiegate nella parte più dura delle catene logistiche dei supermercati. Facemmo pressione per cambiare le regole truccate e i doppi standard che governano il commercio internazionale.
Ed esplorai le implicazioni sui diritti umani dei cambiamenti climatici, incontrando agricoltori dall’India allo Zambia i cui campi sono stati trasformati in polvere dalla siccità. Poi diventai mamma di due gemelli e passai un anno immersa nell’economia dei pannolini. Quando tornai al lavoro, avevo chiara la pressione a cui sono sottoposti i genitori che devono destreggiarsi tra famiglia e lavoro.
Attraverso tutto questo, gradualmente mi resi conto di una cosa ovvia. Non potevo semplicemente abbandonare l’economia: modella il mondo in cui viviamo, e le sue teorie avevano definito la mia forma mentis, anche quando provai a rigettarle. Così decisi di tornarci e ribaltarla. E se facessimo partire l’economia non dalle sue astrazioni, ma dagli obiettivi a lungo termine dell’umanità, e poi ci chiedessimo quale tipo di pensiero economico può darci le migliori possibilità per raggiungerli?
Provai a disegnare un’immagine di questi obiettivi e venne fuori una ciambella. La sua essenza consiste in una coppia di cerchi concentrici. Al di sotto del cerchio interno, la base sociale, si trovano privazioni critiche come la fame e l’analfabetismo. Oltre il cerchio esterno, il tetto ecologico, si trova il degrado ambientale. Tra i due cerchi si trova la ciambella, lo spazio entro il quale possiamo soddisfare i bisogni di tutti rispettando i limiti del pianeta.
Si fa fatica a considerare le zuccherose ciambelle fritte come una metafora verosimile delle aspirazioni dell’umanità, ma c’era qualcosa in quell’immagine che colpì me e molti altri, e quindi rimase impressa. E pose una domanda profondamente emozionante: se l’obiettivo dell’umanità per il XXI secolo è entrare nella ciambella, quale approccio mentale economico può darci maggiori possibilità di successo?
Con la ciambella in mano, misi da parte i miei vecchi libri di testo e iniziai a cercare le migliori idee che si stavano delineando, esplorando il nuovo pensiero economico con studenti di mentalità aperta, business leader progressisti, accademici innovativi e professionisti all’avanguardia. Questo libro mette insieme le intuizioni che ho raccolto durante questo percorso, intuizioni sui modi di pensare che avrei voluto trovare all’inizio del mio corso di studi in economia e che credo dovrebbero oggi essere parte del bagaglio di strumenti di ogni economista.
L’economia della ciambella attinge a diverse scuole di pensiero, come quella ecologica, femminista, istituzionale, comportamentale e della complessità. Sono tutte ricche di intuizioni, ma c’è comunque il rischio che rimangano separate in compartimenti stagni. La vera rivoluzione consiste nel combinare quello che ognuna ha da offrire e nello scoprire cosa succede quando esse interagiscono sulla stessa pagina.
L’umanità ha di fronte sfide ardue, ed è in gran parte grazie ai punti ciechi e alle metafore sbagliate di un pensiero economico obsoleto che siamo arrivati a questo punto. Ma per coloro che sono già pronti a ribellarsi, a guardarsi intorno, a mettere in dubbio e ripensare, questo è un momento eccitante. Come scrisse Alvin Toffler: gli studenti devono imparare ad abbandonare le vecchie idee, come e quando sostituirle, come imparare, disimparare e imparare di nuovo. Questo è un grande momento per disimparare e poi imparare di nuovo i fondamentali dell’economia.
Abbiamo bisogno di una narrazione sul nostro futuro economico condiviso adatta al XXI secolo. Le storie che hanno avuto maggiore impatto nella storia sono quelle raccontate per immagini. Se vogliamo riscrivere l’economia, dobbiamo ridisegnare anche queste immagini, perché abbiamo poche speranze di raccontare una storia nuova se rimaniamo attaccati alle vecchie illustrazioni”.
Tratto da K. Raworth, "L'economia della ciambella. Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo", Edizioni Ambiente.