L’era della ciambella
Intervista a Kate Raworth, agosto 2017
La più grande sfida nel XXI secolo è soddisfare tutti i bisogni dell’umanità, rispettando i limiti del pianeta. Come possiamo assicurare il perseguimento della felicità di ognuno, mettere fine alla povertà, eliminare le ingiustizie proteggendo al contempo la Terra ed evitando di esercitare una pressione eccessiva sui sistemi planetari di sostentamento della vita (suolo, biodiversità, atmosfera) dai quali dipendono tutti gli esseri viventi?
L’economia lineare neoclassica, petro-capitalistica, ha spinto il mondo sull’orlo del collasso. È indispensabile ridefinire l’economia politica. Nell’ultimo anno una grande attenzione si è concentrata sul lavoro dell’economista del Cambridge Institute for Sustainability Leadership, Kate Raworth. Ma non aspettatevi i grafici iper-complessi e le regole “perfette” che stanno alla base dell’economia tradizionale. “Per trasformare la nostra economia dobbiamo ridefinire la sua narrativa e i suoi simboli. Per questo propongo un nuovo modello basato sulla forma della ciambella.” Davvero, avete capito bene. Ciambella. Ma attenti: Kate Raworth è una pensatrice assolutamente razionale. Autrice di uno dei più importanti libri di questo secolo, L’economia della ciambella. Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo, Kate Raworth per oltre vent’anni si è occupata di definire un metodo per decostruire l’economia neoclassica, lavorando con l’Ong Oxfam, compiendo ricerche sulla diseguaglianza, e collaborando alla stesura dello Human Development Report per l’Undp. E la ciambella è diventata l’icona di un nuovo paradigma economico.
L'economia della ciambella
Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo
Kate RaworthCome ha pensato di usare la ciambella per rappresentare un nuovo modello di equilibrio su scala globale?
Può sembrare assurdo, ma quando studiavo una rappresentazione grafica del benessere umano e della situazione del XXI secolo è emerso un disegno che somigliava a una ciambella. Nel buco della ciambella sono rappresentate le carenze nelle fondamenta sociali: cibo, sanità, acqua, istruzione e alloggi. Chi non sta nel buco della ciambella riesce a vivere una vita dignitosa, con diritti garantiti e opportunità da cogliere. E allo stesso tempo non possiamo oltrepassare il limite esterno della ciambella, poiché significherebbe che esercitiamo una pressione così forte sul pianeta al punto da superarne i limiti (come spiegato da Johan Rockström, nda). Provocando così i cambiamenti climatici, l’acidificazione degli oceani, e minacciando lo stesso sistema vivente che ci sostenta. Quindi, l’obiettivo del XXI secolo è di portare tutti all’interno della ciambella. Oggi siamo oltre i limiti in entrambe le direzioni ma dobbiamo imparare a vivere entro i limiti del pianeta: gli economisti del secolo scorso non sapevano riconoscere il sistema planetario dal quale dipendiamo. Per raggiungere l’obiettivo abbiamo bisogno semplicemente di un’economia adeguata.
Il suo libro dà un’interpretazione interessante del modello neoclassico: il modo in cui produciamo e consumiamo ha creato un’ideologia riguardo a come dovremmo produrre e consumare, imponendo la crescita come obiettivo manicheo e presentando teorie, come quella di Kuznets, quali leggi assolute della fisica. Quindi la realtà è diventata una copia del modello.
Noi esseri umani siamo molto influenzati dai racconti su come funziona il mondo. E lo siamo anche dalle immagini: quelle che disegniamo in ambito economico – insieme alle storie che raccontiamo – modellano il nostro comportamento. E l’economia modella la storia più importante che narriamo, la storia di chi siamo. Una narrativa in cui si dice che siamo spinti solo dall’interesse egoistico. Questo non corrisponde al vero, dobbiamo raccontarci la vera storia di chi siamo, e questo cambierà realmente quello che siamo diventati.
È tempo di decostruire il modello economico neoclassico e quello neoliberista?
Gli economisti che ci dicono “chi siamo” hanno un’enorme responsabilità. Perché questo plasma ciò che diventiamo. Non dobbiamo solamente ripensare la storia di ciò che l’economia è. Nell’economia neoclassica mainstream, se chiedo a un professore “mi mostri la più grande immagine dell’economia che possiede”, probabilmente mi mostrerebbe il diagramma di flusso circolare, realizzato 70 anni fa da Paul Samuelson (il suo libro Economics: An Introductory Analysis, pubblicato per la prima volta nel 1948, uno dei più grandi classici, ha influenzato gran parte degli studenti di macro-economia del mondo, nda). Eppure questa immagine riporta solo ciò che è monetizzato, solo i flussi, senza il minimo riferimento al mondo vivente. Non si parla di materiali e rifiuti, né dei beni comuni, dei luoghi in cui la gente vive. Abbiamo fatto funzionare la nostra economia mediante una storia piena di omissioni e silenzi riguardo ad alcuni dei principali problemi attuali. Dobbiamo ridisegnare il diagramma e scrivere nuove storie che ci diano un’immagine di quel mondo che davvero vogliamo creare e un modello di noi stessi che sia fedele a tutte le reali possibilità della natura umana.
Le imprese hanno sempre seguito la regola del profitto. Che aspetto avranno le imprese del XXI secolo?
Ci sono tre criteri fondamentali che danno forma a un’impresa: lo scopo, la proprietà e il finanziamento. E sono aspetti spesso strettamente interconnessi. Nel XX secolo lo scopo delle imprese era di massimizzare i ritorni degli azionisti e il profitto. “Il business del business è il business” era il mantra. La proprietà era detenuta dagli azionisti, che non avevano mai messo un piede nell’attività e la finanza era gestita attraverso mercati distanti e sempre alla ricerca di tassi di ritorno più alti. Le persone vedevano solo diagrammi di flusso, non incontravano mai i lavoratori, forse nemmeno conoscevano davvero i prodotti. Questo ha contribuito a portarci dove siamo ora, mettendo da parte l’ambiente e le comunità, chiamandole "esternalità". Quando definisci qualcuno o qualcosa come un’esternalità, hai già detto quanto poco lo consideri importante. Abbiamo bisogno di un business con uno scopo esistenziale: perseguire il perpetuarsi della vita, rigenerando l’ambiente. La proprietà deve essere radicata, forse tra i dipendenti o tra gli azionisti che si prendono un impegno a lungo termine nel perseguire lo scopo dell’azienda. La finanza deve dedicarsi non solo al "ritorno sugli investimenti", ma anche al valore sociale e ambientale che le imprese puntano a creare. Quindi la domanda che sta al cuore del business del XXI secolo è: quanti benefici possono essere accorpati, così da poterne distribuire una parte. È una questione di generosità: “in che modo posso utilizzare la mia azienda per contribuire ad affrontare un problema sociale o ambientale?”.
I modelli neoclassici sono stati utilizzati dagli stati per definire la loro economia politica. Come può uno stato trasformare i suoi modelli di sviluppo e di misurazione?
Restiamo sul semplice: lo scopo del governo è di creare un’economia che sia rigenerativa per principio, segua il ritmo del mondo vivente e sia distributiva, così che il valore creato sia condiviso. La principale, assoluta, priorità è trasformare il sistema energetico passando dai combustibili fossili alle energie rinnovabili. Ciò ridurrebbe i costi dell’energia, creerebbe impiego, innovazione e un sistema energetico distributivo. Poi questo cambierebbe l’intera base di tassazione, ponendo fine alla tassazione di chi utilizza la forza lavoro, senza penalizzare le aziende perché assumono personale, ma tassando l’uso delle risorse e l’utilizzo di materiali vergini. Ciò sarebbe un forte incentivo per il business, per l’occupazione; inoltre le imprese sarebbero più efficienti nell’utilizzo delle risorse. Bisogna incoraggiare la creazione di società in proprietà dei dipendenti, di cooperative, incentivare i nuclei domestici a installare pannelli solari sui loro tetti, incoraggiare l’uso dei creative commons. Ci servono metriche per calcolare il potenziale rigenerativo, tagliando le emissioni di carbonio e per mostrare che il valore è ridistribuito trai cittadini. Credo che questo richieda fondamentalmente di trasformare la finanza, che ci ha portati in un processo degenerativo.
È un compito imponente, i governi di solito temono i cambiamenti. Come pensa che si possa realizzare il cambiamento?
Uno dei motivi per cui i governi hanno paura di occuparsi del settore finanziario è perché, ogni volta che viene messo sotto pressione, minaccia di delocalizzare altrove le proprie attività. Che è quello che stiamo vedendo nel Regno Unito. Abbiamo bisogno di governi che collaborino, a livello internazionale. Un gruppo come l’Unione europea è un punto di partenza molto potente. Deve incoraggiare nuove finanze, creare green bond, incentivare e supportare le banche che attivano fondi di investimento socialmente responsabili. Questo tipo di misure non solo porta a una contrazione della vecchia finanza, ma incoraggia attivamente ad adottare nuovi modelli finanziari.
Che tipo di metriche economiche sono necessarie per l’economia della ciambella?
Il XXI secolo sarà governato da unità di misura naturali e sociali. Ora tutti comprendiamo l’impronta idrica, parliamo d’impronta di carbonio. Vent’anni fa nessuno avrebbe capito di cosa stiamo parlando, ma oggi stiamo promuovendo metriche naturali e sociali. Per coloro che creano le nuove metriche è un compito eccitante scoprire nuovi Kpi (Key Performance Indicator) e sistemi per gestire i big data nazionali. Dobbiamo valutare se l’economia è rigenerativa per principio, quindi ci serve un’unità di misura che mostri fino a che punto un business è parte dell’economia circolare e se è distributivo. Penso che più ci concentriamo su questo e più vediamo le fonti reali del benessere. Ci renderemo conto allora che il pil, che rappresenta principalmente il valore di beni e servizi venduti in un anno, potrebbe crescere o a volte diminuire in risposta ai cambiamenti nell’economia rigenerativa e distributiva, ma non sarà mai più la più importante – e unica – unità di misura.
Il pil non misura la diseguaglianza, che è aumentata ovunque dall’inizio del secolo. Pensa che la distribuzione della ricchezza debba diventare un aspetto politico fondamentale?
L’interazione tra come distribuiamo la ricchezza e come creiamo un’economia rigenerativa presuppone compromessi e tensioni ma anche vantaggi collaterali che devono essere esplorati. Credo che sia essenziale ridistribuire il reddito in modo che le persone che non possono permettersi un’abitazione, cibo, sanità, abbiano accesso a queste cose; dobbiamo assicurare che i modelli di business creino catene di rifornimento circolari. La domanda che mi pone è complessa e non ha una risposta semplice. Questo è proprio quello su cui gli economisti del XXI secolo dovrebbero concentrare la loro attenzione, per cercare le sinergie che potenzialmente esistono tra la redistribuzione della ricchezza e la creazione di un’economia rigenerativa.
Secondo lei come dovrebbe essere un’economia davvero circolare?
L’industria del XX secolo era basata su una progettazione lineare degenerativa. Grazie alla quale prendevamo i materiali della terra, li trasformavamo in quello che volevamo, li usavamo per un po’ e poi li buttavamo via. Un sistema “estrai, trasforma, usa, butta via”. Noi dobbiamo piegare questa economia lineare, così che invece di utilizzare nuove risorse possiamo continuare a riutilizzarle. In due cicli distinti, uno per i materiali biologici, che si rigenerano naturalmente – questo è il lavoro della Terra – e uno analogo per i materiali tecnici, come plastica, metalli e materiali. Dobbiamo ripristinarli, ripararli, riutilizzarli e solo alla fine riciclarli. Questa è l’essenza di un’economia circolare, e perché funzioni davvero come un ecosistema all’interno di un’economia deve essere basata su fonti libere e materiali liberi. In questo modo essa non cerca di rimanere nei limiti di un’azienda ma diventa un sistema su scala industriale così che molte aziende vengano coinvolte contemporaneamente.
Di solito il business privato ha paura degli ambienti open-source. Le università possono avere un ruolo nei sistemi open-source?
Io credo che i governi abbiano un ruolo molto importante da giocare nella creazione delle capacità, perché è questo l’ambito in cui operano i sistemi open-source. Così quando il denaro pubblico viene utilizzato per finanziare ricerche e idee, sicuramente le idee e le scoperte risultanti dovrebbero essere rese di pubblico dominio. Ciò che è stato finanziato con denaro pubblico dovrebbe essere pubblicato con licenze creative commons, non sotto copyright, che è una proprietà intellettuale.
Quindi la transizione a un’economia circolare deve essere supportata da organismi di ricerca pubblici.
Questo è un modo in cui il governo può ampliare la portata del bene comune della conoscenza, creando piattaforme digitali in cui i cittadini inseriscono i dati. A Brest, in Francia, l’amministrazione locale ha creato una piattaforma digitale per la conoscenza in cui i cittadini hanno inserito tutte le informazioni. È un bellissimo esempio d’informazione open-source generata dalla gente. Lo stesso si può fare per l’economia circolare.
Sta collaborando con la Ellen MacArthur Foundation?
Sì, la EllenMacArthur Foundation sta dando vita a un nuovo paradigma economico. Hanno quantificato questa idea che l’economia esiste all’interno dell’ambiente. Ho lavorato a stretto contatto con loro, perché abbiamo capito che insieme stiamo contribuendo a creare una nuova narrativa, una nuova storia e una diversa immagine di un’economia che possa funzionare per il XXI secolo. Hanno distribuito 300 copie del mio libro a capitani di industria. Il lavoro della Fondazione sull’economia circolare è davvero considerevole in Inghilterra, ma anche a livello internazionale. Ellen ha passione e ispira innovazione creativa.
Chi adotterà il modello della ciambella?
C’è molta attenzione in tutto il mondo. A Stoccolma l’amministrazione pubblica sta creando un nuovo quartiere che sarà chiamato Doughnut District, il Distretto della Ciambella. Alcune aziende hanno spontaneamente appoggiato il modello. Sono stati colpiti dalla forza dell’immagine.
Ma per sovvertire convinzioni fortemente radicate, probabilmente serve una nuova scuola economica, come fecero i Chicago Boys negli anni Settanta.
Oggi il modello della ciambella è utilizzato negli studi di economia dello sviluppo, in geografia, architettura e scienze politiche. Gli unici che stanno opponendo resistenza sono gli economisti. Se i dipartimenti di economia continuano a utilizzare modelli che tutte le altre discipline già riconoscono come obsoleti – perché abbiamo visto cos’è successo nella crisi finanziaria – o si rendono irrilevanti con i loro modelli o fanno il salto verso una nuova visione. Dobbiamo creare un ponte tra i nuovi economisti e quelli mainstream. Io sto cercando di farlo al Cambridge Institute for Sustainability Leadership rivolto a tutti i dirigenti delle aziende leader nel mondo. Tuttavia cambiare il mondo degli economisti è una strada lunga e tortuosa.
Immagine: Alice Pasqual (Unsplash)
Articolo pubblicato su Materia Rinnovabile, n. 17, Edizioni Ambiente, luglio-agosto 2017