2052, un futuro tra rimpianti e speranze
Intervista a Ugo Bardi, aprile 2013
Sono passati più di quarant’anni da quando, nel 1972, venne pubblicato I limiti dello sviluppo.
La tesi centrale del rapporto, di cui Randers era uno dei coautori, era che le società democratiche reagiscono con troppa lentezza ai problemi, e che di conseguenza l’azione combinata di sovrasfruttamento delle risorse, inquinamento e incremento demografico rischia di spingerle oltre la soglia del collasso. I limiti dello sviluppo è stato oggetto di critiche feroci e le sue previsioni sono state accantonate come profezie infondate. In realtà, la realtà è assai diversa. Può tratteggiarci un quadro di quanto avvenuto in questi anni?
La tesi del libro era complessa, ma il messaggio era fondamentalmente di speranza. Si proponevano delle azioni pratiche per fronteggiare quello che era un problema inevitabile: il graduale aumento dei costi delle risorse minerali causato dall’esaurimento dei giacimenti più concentrati, accoppiato con altri due fenomeni: l’aumento della popolazione e l’inquinamento.
Lo studio non andava a esaminare quelli che sarebbero potuti essere i meccanismi decisionali capaci di portare, per esempio, a una stabilizzazione della popolazione. Nella pratica, in ogni caso, non è stato possibile fare niente in proposito, indipendentemente dalla struttura democratica o no dei vari paesi. Anzi, sotto certi aspetti i paesi totalitari hanno reagito in modo più negativo di quelli democratici nei confronti dello studio. Per esempio, in Unione Sovietica, il commento fu, più o meno, che I limiti dello sviluppo poteva, sì, descrivere la traiettoria verso la decadenza delle plutocrazie capitalistiche, ma non certo la gloriosa e inarrestabile crescita delle economie centralizzate (apparentemente, nessuno ha il monopolio delle scemenze su questo pianeta). In fin dei conti, i meccanismi decisionali di tutte le società si sono rivelati troppo focalizzati sul breve termine per poter prendere decisioni riguardo a problemi a lungo termine – semplicemente, non abbiamo nessun meccanismo del genere. Al contrario, sembra proprio che abbiamo dei meccanismi efficaci per demonizzare i tentativi di pianificare a lungo termine, indipendentemente dalla validità dei metodi utilizzati. Questo è stato il destino dei I limiti dello sviluppo del 1972, demonizzato e demolito negli anni 1980 da una campagna propagandistica che si è rivelata talmente efficace che ancora oggi moltissimi sono convinti che era “sbagliato”. È lo stesso metodo che si sta cercando di utilizzare oggi contro la scienza del clima, purtroppo con qualche successo.
Uno dei temi centrali di 2052 è la prevalenza della visione a breve termine, incentrata sulla massimizzazione dei benefici nell’immediato. È un tratto tipico degli esseri umani e, purtroppo, anche delle democrazie, che si focalizzano sulla crescita a ogni costo. Randers reputa che questo è e sarà uno degli ostacoli principali al cambiamento necessario per evitare che si inneschi un riscaldamento globale autorinforzantesi, e la storia sembra confermare questa visione pessimistica della natura umana. Tuttavia, uno dei filoni che attraversano il libro è che, grazie a internet e alle tecnologie di comunicazione/condivisione, la società globale riuscirà a cooperare in modi inediti. Riusciremo a evitare una svolta autoritaria e centralistica, ispirata magari al modello cinese, a cui Randers pare peraltro guardare con ammirazione per la sua capacità di reagire in fretta alle difficoltà?
Certamente andiamo di fronte a dei grandi cambiamenti. Se ci pensiamo sopra un momento, il nostro concetto di “democrazia” è ancora basato su metodi sviluppati secoli fa che prevedevano che gli elettori fossero analfabeti: per questo quando si vota facciamo una crocetta su un simbolo. Con l’internet, andiamo verso nuovi meccanismi decisionali e di cooperazione che saranno totalmente differenti. Non sappiamo però come potrebbe essere possibile gestire un governo statale attraverso internet: la velocità e il volume di comunicazione ci porteranno a una maggior efficienza o alla paralisi totale? Gli ultimi eventi in Italia sembrano indicare che la seconda ipotesi potrebbe essere più corretta. In ogni caso, i meccanismi decisionali non influiscono sulla percezione umana della necessità o meno di lavorare in vista di benefici a lungo termine – riuscire a prendere decisioni in questo senso è una questione che potremmo definire come di “saggezza”, entità che non sembra essere particolarmente avvantaggiata dall’avvento di internet.
Rimanendo sul tema del riscaldamento globale, se si guarda ai dati sugli impatti effettivi e attuali dei cambiamenti climatici, la cosa che risalta è che si situano all’estremo superiore (e a volte, come nel caso del ghiaccio marino artico, anche oltre) delle previsioni. Non le pare che le proiezioni di 2052 siano eccessivamente ottimistiche, considerato anche che secondo Randers si continuerà a usare in abbondanza i combustibili fossili?
A mio parere sì, le previsioni di Randers sull’impatto del riscaldamento globale possono essere viste come ottimistiche. D’altra parte, sono il risultato dell’impostazione del libro. Randers ha usato un metodo completamente diverso da quello che era l’approccio della serie dei Limiti dello sviluppo – questi consistevano nello sviluppo di un “ventaglio di scenari” che prendevano in considerazione sia ipotesi molto ottimistiche sia ipotesi catastrofiche. Randers si è concentrato su un singolo scenario, ottenuto secondo i dati che oggi ci sembrano i migliori disponibili. Questo scenario corrisponde abbastanza bene a certe previsioni climatiche “standard” e quindi potrebbe essere un futuro possibile. Però, il riscaldamento globale è un soggetto estremamente ostico in termini di previsioni. Lo scenario di Randers potrebbe rivelarsi perfettamente valido ma, se entrano in gioco fattori non lineari come le emissioni di metano dai depositi di idrati, allora potremmo vedere un cambiamento molto rapido e disastroso. Speriamo allora che abbia ragione Randers.
Negli ultimi tempi in molti si sono entusiasmati per gli sviluppi delle tecnologie estrattive, che hanno consentito di accadere a riserve prima irraggiungibili (gas e petrolio da scisti, petrolio in acque profonde...). Uno degli osservatori più attenti dello scenario energetico, Vaclav Smil, da sempre dichiara che la transizione a un sistema energetico a bassa intensità di carbonio richiederà parecchi decenni, e anche Randers sostiene che i combustibili fossili continueranno a essere la fonte dominante. Secondo lei dovremo convivere con i combustibili fossili ancora a lungo?
L’entusiasmo di molti commentatori su questo punto è decisamente eccessivo, ma è anche vero che non sarà l’esaurimento delle risorse che ci costringerà a fare a meno del petrolio e degli altri combustibili fossili a breve scadenza. Nella pratica, con nuove o vecchie tecnologie, possiamo continuare a tirar fuori perlomeno una certa quantità di combustibili ancora per decenni. Su questo punto, Randers ha una posizione abbastanza realistica: è probabile che i fossili li consumeremo un po’ meno, ma continueremo a consumarli. Questo a meno che il cambiamento climatico non ci faccia tali danni da costringerci a smettere bruscamente – cosa perfettamente possibile.
Tra le cose su cui Randers pare più certo ci sono l’urbanizzazione dell’umanità e il ruolo sempre più preponderante della tecnologia nelle nostre vite (nel suo intervento, lei prende in esame le possibili conseguenze dell’utilizzo dei droni nelle attività belliche, che diventeranno così un settore con un contenuto di tecnologia ancora più elevato). In uno dei passaggi che personalmente ritengo più sconfortanti, Randers dice poi di non insegnare ai bambini ad amare la natura, dato che sempre meno potranno farne esperienza. Davvero saremo “Too Smart for Our Own Good” (per citare il titolo del libro di Craig Dilworth)?
Sì, quel passaggio di Randers è effettivamente sconfortante. D’altra parte è quello che sta succedendo. Ci stiamo sempre più urbanizzando e allontanando dalla natura e se qualche disastro ci costringesse a tornare indietro, la cosa non sarebbe per niente piacevole. Tuttavia, come dice Jared Diamond nel suo ultimo libro (The World Until Yesterday) non dobbiamo lamentarci troppo di quello che ci ha portato la civiltà tecnologica: per esempio ha ridotto enormemente la violenza interpersonale.
Secondo Diamond, anche tenendo conto delle guerre più sanguinose dell’ultimo secolo, circa, il numero di vittime della violenza espresso come frazione della popolazione è molto inferiore a quello che si misura in società tribali. Il mio commento sullo sviluppo dei droni militari va in questo senso. Sono macchine progettate e costruite con lo scopo specifico di ammazzare la gente ma, paradossalmente, la loro diffusione potrebbe ridurre ulteriormente il numero di vittime causate da conflitti bellici. Il futuro non è mai quello che uno si aspetta.
Secondo Randers, riusciremo a produrre e distribuire abbastanza cibo per evitare una crisi alimentare. In molti, tra cui Lester Brown, sono invece di parere diverso, e sostengono che dall’intersezione tra incremento demografico, impatti dei cambiamenti climatici, sovrasfruttamento delle riserve idriche, erosione dei suoli e dipendenza dell’agricoltura industriale dai combustibili fossili non possono che venire guai seri. Saremo abbastanza intelligenti da evitarli?
È un punto su cui si potrebbe discutere a lungo. È vero che il riscaldamento globale e l’erosione stanno facendo danni enormi all’agricoltura. È anche vero, però, che l’agricoltura si rivela sempre un sistema resiliente che si adatta a nuove condizioni. Per esempio, per quanto riguarda l’effetto sull’agricoltura della diminuzione della disponibilità di combustibili fossili, io stesso insieme al collega Toufic El Asmar ho fatto uno studio (al momento in corso di pubblicazione) su come si potrebbe adattare il processo agricolo alla disponibilità di energia elettrica prodotta da impianti rinnovabili di tipo fotovoltaico ed eolico.
Lo studio, intitolato “Trasformare l’elettricità in cibo” fa vedere come, in linea di principio, sia possibile usare energia elettrica in agricoltura per fare tutto – o quasi – quello che oggi si fa con il petrolio. Ma, attenzione, la parola chiave qui è “in principio”. La fattibilità tecnologica dipende – ancora una volta – dalla volontà di investire in un futuro a lungo termine, cosa che non vediamo in agricoltura – certamente non più che in altri settori. Alla fine dei conti, credo che su queste cose dovremmo ricordarci di una cosa che ha detto il filosofo romano Seneca in una delle sue lettere: “Volesse il cielo, Licinio, che le cose andassero male con la stessa lentezza con cui crescono per andare bene”. Questa osservazione, l’ho chiamata “Effetto Seneca” in uno dei miei studi, ci dice che i sistemi tendono a mantenersi in piedi nonostante tutte le difficoltà, salvo poi crollare rapidamente, tutto insieme. Questo effetto applicato all’agricoltura ci dice che la produzione agricola può mantenersi in piedi nonostante tutti i problemi, ma che potrebbe anche crollare in modo disastroso se i problemi diventassero eccessivi.
Intervista pubblicata su PuntoSostenibile n.3 del 2013.
Immagine: Patrick Prekins (Unsplash)