Guerra e clima
Da più di un anno e mezzo non c’è telegiornale che non mostri esplosioni, edifici sventrati, carri armati distrutti e missili che solcano il cielo. In realtà, se ci pensiamo, queste scene abbiamo cominciato a vederle, sia pure con minore frequenza, sin dalla prima guerra del Golfo agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso. Poi, tante altre esplosioni e sventramenti sempre in Medio Oriente, gli ultimi in Iraq e in Siria, prima dell’invasione russa dell’Ucraina. Ma non ci sono solo queste guerre da telegiornale, ci sono anche quelle da trafiletto in ottava pagina quando c’è da riempire uno spazio: le guerre fra Etiopia ed Eritrea, quella in Sudan, quella in Mali, per non dire delle guerriglie diffuse dappertutto, come quelle al confine fra Congo, Rwanda e Repubblica Centrafricana. Da queste parti, non essendoci palazzoni da sventrare, ci si limita più umilmente a bruciare capanne, ma i morti ci sono pure, forse di più.
Lo sappiamo, le spese militari, anche con la giustificazione della guerra in Ucraina, stanno lievitando in tutto il mondo, in particolare in Europa e molto probabilmente anche in Cina, visto l’andazzo delle relazioni sino-americane.
Qualcuno protesta, gli ambientalisti, e denuncia il fatto che risorse che dovrebbero andare a finanziare la transizione energetica, invece, se ne vanno per comprare armi, rendendo sempre più difficile il raggiungimento dell’obiettivo emissioni nette zero nel 2050.
Magari fosse solo la diversione delle risorse finanziarie il danno al riscaldamento globale. Infatti, per il solo fatto di esistere le forze armate del mondo sono forti emittenti di gas serra e ancora di più contribuiscono al cambiamento climatico quando scoppiano le guerre. La guerra non dissemina morte, sfollamenti, vita d’inferno solo nei luoghi in cui si combatte, ma – a causa degli effetti sull’ambiente globale – anche lontanissimo, dove si subiscono gli effetti del cambiamento climatico, esacerbato proprio dalle guerre.
L’impatto delle forze armate sul cambiamento climatico
L’impronta di carbonio militare totale stimata sarebbe pari a circa il 5,5% delle emissioni globali. Se le forze armate del mondo fossero un paese, questa cifra significherebbe che hanno la quarta impronta di carbonio nazionale più grande al mondo, superiore a quella della Russia. Si tratta di una stima, e potrebbe essere per difetto, ed è di fatto impossibile sapere il valore reale, dato che il tutto è solitamente coperto da segreto militare.
In merito ai valori stimati dell’impronta di carbonio delle forze armate, va precisato che in tutti gli studi si prendono in considerazione, e si sommano, due contributi. Uno è quello delle emissioni “di funzionamento”, quelle dovute al carburante bruciato negli autoveicoli militari, negli aerei, nelle navi, negli uffici per riscaldarli, raffreddarli, illuminarli ecc. L’altro contributo è quello delle emissioni incorporate in tutti i veicoli, aerei, navi, cannoni, munizioni ecc., cioè le emissioni causate dal processo di produzione di tutto il materiale bellico. Sommando le emissioni di funzionamento, quelle incorporate e altre indirettamente dovute alle attività delle forze armate, in periodo di pace e in periodo di guerra, si ottengono le cosiddette “emissioni consumate”, e sono queste a costituire l’impronta di carbonio.
Le informazioni più precise vengono dagli USA e dal Regno Unito. Secondo uno studio pubblicato su Nature, se le forze armate degli Stati Uniti fossero una nazione, sarebbero il 54° produttore di emissioni a livello globale, superando quelle di molti paesi, come la Svizzera, e la Nuova Zelanda. Più impressionante è il dato se riferito al numero di persone, civili e militari, che fanno parte delle forze armate USA, se cioè si considerano le emissioni pro-capite, che infatti ammontano a ben 42 tonnellate di anidride carbonica equivalente (CO2e); giusto per avere un’idea, le emissioni annue pro-capite statunitensi sono pari a 15 t e meno della metà (6 t) quelle dell’Unione europea.
Molto meno, ma pur sempre significative, sono le emissioni delle forze armate britanniche, che nel 2018 erano circa 2,7 milioni di tonnellate di CO2e, equivalenti alle emissioni annue di 1,5 milioni di automobili di media cilindrata.
È stato stimato che l’impronta di carbonio militare dell’Ue nel 2019 sia stata di circa 24,8 milioni di tonnellate di CO2e, nove volte quelle del Regno Unito, ed è una stima prudente. La Francia è risultata contribuire a circa un terzo dell’impronta di carbonio totale delle forze armate dell’Ue, mentre l’Italia contribuisce con l’8%. Tutto questo in tempo di pace.
Nessun dato è disponibile per Cina e Russia, ma si può ragionevolmente immaginare che i numeri siano più vicini a quelli statunitensi che a quelli europei.
Guerre ed effetti sul clima globale
I conflitti armati spesso arrestano o invertono lo sviluppo economico. Per questo motivo si presume generalmente che essi portino a una riduzione delle emissioni che contribuiscono al cambiamento climatico. Ma le cose non stanno così.
Per esempio, ci informa il citato studio pubblicato su Nature, il consumo di carburante durante la guerra in Iraq potrebbe aver rilasciato più di 250 milioni di tonnellate di CO2e tra il 2003 e il 2011, pari a 3/4 delle emissioni italiane di CO2 nel 2021.
Gli spostamenti umani transfrontalieri possono contribuire all’aumento delle emissioni dei paesi confinanti, come nel caso del Libano, della Giordania e della Turchia a causa degli sfollati siriani che fuggivano dai combattimenti in Siria. Ciò perché per fornire cibo, acqua e riparo ai civili colpiti dai conflitti sono necessarie risorse significative e per questo il settore umanitario ha un’ampia impronta di carbonio. Il consumo di carburante è particolarmente elevato, soprattutto per la logistica e per alimentare i generatori che forniscono elettricità. I campi profughi possono anche rilasciare carbonio in seguito a cambiamenti di uso del suolo, come nel caso della deforestazione vicino ai campi Rohingya in Bangladesh.
Quando un conflitto si protrae o va in stallo, la mancanza di investimenti esterni e la debolezza della governance possono far sì che vecchie tecnologie inquinanti rimangano in uso, laddove altrimenti sarebbero state sostituite. Un esempio è la pratica del “flaring”, ovvero la combustione del gas di petrolio in eccesso come sottoprodotto della produzione petrolifera. I volumi coinvolti possono essere enormi, ed enorme è la quantità di CO2 rilasciata. L’intensità del flaring è aumentata in modo sostanziale in Libia, Siria e Yemen durante i conflitti, nonostante il calo complessivo della produzione totale dovuto all’arresto della produzione petrolifera; la stessa tendenza è stata riscontrata durante il conflitto in Iraq ed è continuata dopo.
Inoltre, un’altra grande incognita è il modo in cui variano le fughe di gas naturale nella rete di trasporto, un aspetto significativo in quanto il metano ha un potenziale di riscaldamento globale 28 volte superiore a quello della CO2. Durante le guerre la manutenzione si fa meno attenta, e le fughe aumentano.
Anche la gestione dei rifiuti solidi si deteriora, e vengono lasciati per strada, dando luogo alla proliferazione di discariche informali con emissioni elevate e combustione dei rifiuti all’aperto. Queste tendenze alla disfunzione nella gestione dei rifiuti solidi sono comuni alla maggior parte dei conflitti, ad esempio a Gaza e nello Yemen.
E poi ci sono gli incendi dei boschi, che le attività belliche innescano.
L’uso di armi esplosive in aree popolate può creare livelli di distruzione impressionanti, con un forte impatto sul riscaldamento globale, perché comporta emissioni di CO2 per la movimentazione dei detriti, per la bonifica delle aree contaminate e per la ricostruzione. In città come Mosul, Sirte e Homs, con distruzioni diffuse, la gestione delle macerie rappresenta una sfida enorme e ad alto consumo energetico. Si stima che lo sgombero delle macerie dalle sole città di Aleppo e Homs richieda più di 1 milione di viaggi in camion.
Il 10% del patrimonio abitativo delle aree siriane colpite dal conflitto è totalmente distrutto e quasi un quarto parzialmente distrutto: le stime indicano che la ricostruzione emetterà circa 22 milioni di tonnellate di CO2.
Il contributo al riscaldamento globale di un anno di guerra in Ucraina
Quanto ci sta costando, in termini ambientali, la guerra in Ucraina? Un recente studio del Ministero della Protezione Ambientale e delle Risorse naturali dell’Ucraina valuta pari a 120 milioni di tonnellate di CO2e le emissioni prodotte direttamente dal conflitto nei suoi primi 12 mesi, quanto quelle del Belgio nello stesso periodo. Si tratta dell’impronta di carbonio di un anno di guerra, e quindi include tanto le emissioni “di funzionamento”, carburante bruciato, esplosioni, quanto quelle incorporate nel materiale bellico usato e quelle indirette, indotte dal conflitto. La maggior parte (circa il 65%) di queste emissioni è stata causata dal consumo di carburante delle truppe russe. Seguono quelle causate dal carburante usato dalle truppe ucraine (21%) e quelle causate dalle munizioni (9%), che comprendono quelle incorporate, quelle al punto di lancio e quelle al punto di arrivo. Infine, quelle incorporate nell’equipaggiamento militare messo fuori uso (carri armati, autoveicoli ecc.) e nelle fortificazioni (cemento e ferro).
Non meno significative le emissioni indirettamente imputabili al conflitto, e fra queste ce ne sono di impensabili, come quelle causate dal fatto che gli aerei di linea dei paesi del blocco NATO non possono più sorvolare la Russia, e sono costretti a rotte molto più lunghe nei collegamenti Europa-Estremo Oriente. Sono ben 12 milioni di tonnellate di CO2 in più.
Più pesante è il contributo degli incendi di boschi causati dai missili e dai droni kamikaze nei primi 12 mesi di guerra, stimato pari a quasi 18 milioni di tonnellate di CO2e.
Poi c’è quello che per alcuni si presenta come un grande business; la ricostruzione postbellica delle infrastrutture militari e civili. Si stima possa avere una impronta di carbonio dell’ordine di 50 milioni di tonnellate di CO2.
Anche lo spostamento di persone da e verso l’Ucraina ha causato emissioni: rifugiati che riparano all’estero, altri che si spostano da est a ovest nel territorio nazionale, altri che tornano dall’estero. Si sono stimate emissioni pari a circa 2,5 milioni di tonnellate di CO2.
Infine non bisogna dimenticare, nel 2022, il sabotaggio dei gasdotti Nord Stream 1 e 2, che hanno comportato il rilascio in atmosfera di ben 14,6 milioni di tonnellate di CO2e.
A fronte di queste emissioni si potrebbe osservare, però, che il consumo totale di gas naturale nell’Unione europea è diminuito significativamente (13%) nel 2022 rispetto al 2021, con riduzione delle emissioni. Vero, ma le ragioni sono molteplici, dall’inverno mite alle misure di efficienza energetica, che fanno parte della politica dell’Ue, all’incombente crisi del costo della vita. Quindi, non tutta la riduzione si può attribuire alla guerra, solo circa la metà, secondo lo studio citato, e le conseguenti emissioni evitate sono quasi interamente compensate da altri effetti della guerra: l’aumento delle emissioni per la produzione di energia elettrica (carbone invece di gas) e l’aumentato ricorso al gnl, che ha emissioni a monte più elevate rispetto al gas dei gasdotti, poiché il gas deve essere liquefatto, sono necessarie navi cisterna per il trasporto del gnl e il trasporto del gnl avviene su distanze molto più lunghe.
Ma c’è da guardare anche l’altra faccia della medaglia. L’invasione russa ha provocato un sostanzioso declino economico dell’Ucraina. Nel 2022, il pil è calato di quasi il 30%, con le riduzioni più consistenti nei settori manifatturiero, siderurgico, minerario, energetico, agricolo e dei trasporti. Di conseguenza, anche le emissioni di gas serra si sono ridotte in modo significativo, sebbene non siano disponibili dati ufficiali. Secondo lo studio citato del Ministero della Protezione Ambientale ucraino ci si può aspettare, tuttavia, che le emissioni si siano ridotte in misura minore, rispetto al pil, per diverse ragioni. Infatti, è probabile che le emissioni del trasporto su strada si siano ridotte a un tasso inferiore a causa del passaggio della logistica dal trasporto marittimo a quello su gomma. Anche il consumo di gas naturale per il riscaldamento si è ridotto a un tasso inferiore rispetto al declino economico, poiché il teleriscaldamento spesso non può essere regolato a livello di singolo appartamento e il fabbisogno di riscaldamento delle famiglie non dipende dall’attività economica. Le emissioni dell’agricoltura si sono ridotte a causa del minor uso di fertilizzanti minerali; tuttavia, è probabile che sia stato seguito l’andamento di business-as-usual per le emissioni associate alla fermentazione enterica e alla gestione del letame. Allo stesso modo, le emissioni derivanti dalla gestione dei rifiuti sono state influenzate a tassi inferiori rispetto al declino economico.
Tenendo conto di tutto ciò, lo studio citato stima che le emissioni complessive di gas serra all’interno dei confini territoriali dell’Ucraina potrebbero essersi ridotte di circa 60-80 milioni di tonnellate di CO2e nel 2022, di cui 28 milioni nel solo settore della produzione di elettricità, che è stato fortemente colpito dalla guerra. Infatti, se il consumo di gas è diminuito del 23% rispetto al 2021, quello dell’elettricità è diminuito di oltre un terzo. A ciò ha contribuito una combinazione di fattori: riduzione dell’attività economica, distruzione di siti commerciali, riduzione della domanda dovuta a interruzioni dell’offerta e riduzione della domanda dovuta alla migrazione. Gli eventi di blackout innescati da incessanti attacchi missilistici a partire dall’ottobre 2022 hanno portato a un ulteriore calo del consumo di elettricità e costretto alcuni consumatori a passare a generatori off-grid.
La riduzione delle emissioni di gas serra in Ucraina, tuttavia, non significa una riduzione complessiva delle emissioni a livello globale, poiché una quota significativa di emissioni si è semplicemente spostata in altri paesi. Circa 8,6 milioni di ucraini sono stati costretti a lasciare il loro paese e si sono stabiliti come rifugiati altrove, soprattutto in Europa, dove continuano a consumare elettricità, gas naturale e altre risorse energetiche. I rifugiati utilizzano anche i mezzi di trasporto, vivono in appartamenti, acquistano cibo, vestiti e altri beni e servizi, tutti associati a una certa impronta di carbonio.
La produzione di beni ad alta intensità di carbonio orientati all’esportazione, come i prodotti siderurgici, è stata probabilmente ripresa da altri Paesi del mondo. La produzione di acciaio nel 2022 è diminuita del 70% rispetto al 2021, il che ha comportato una riduzione delle emissioni di 34,5 milioni di tCO2e all’interno dell’Ucraina, ma un aumento altrove nel mercato altamente globalizzato dell’acciaio.
I prodotti consumati in Ucraina, che prima erano fabbricati nelle imprese locali, ora sono spesso fabbricati in altri Paesi e importati in Ucraina.
In definitiva, si è stimato che gli effetti diretti sul sistema economico ucraino e quelli indiretti globali indotti dall’invasione russa hanno comportato una diminuzione netta di soli 21,9 milioni di tCO2e.
Dato, questo, che andrebbe ulteriormente corretto da tutta una serie di altri effetti indiretti, nel mondo, quali quelli derivanti dal blocco della esportazione di cereali e altri prodotti agricoli, o dall’aumento dell’attività dell’aviazione militare al di fuori dell’Ucraina: la NATO, per esempio, ha aumentato i voli di sorveglianza lungo il confine orientale (per ogni 100 km percorsi, il caccia F-35 – li abbiamo anche noi – emette 1,24 tonnellate di CO2e, quanto una Volkswagen Golf che viaggia per 12.000 km).
E poi c’è il processo di riarmo in corso in Europa, dove le dotazioni belliche degli stati membri stanno significativamente aumentando, con le emissioni associate.
Includendo queste valutazioni, ed altre, le riduzioni di emissioni causate dalla guerra si riducono a ben poco, e resta l’incremento dovuto direttamente alle azioni belliche, che si è visto essere tutt’altro che trascurabile (120 MtCO2e).
Guerra e pace
Quale lezione si può trarre da tutto ciò? La prima è che da qualsiasi punto di vista si guardi, a guadagnarci, da una guerra, sono solo gli avvoltoi della ricostruzione e l’industria bellica. Per tutti gli altri, da chi scappa dalle bombe a chi, lontanissimo dal teatro di guerra, perde il raccolto per effetto del cambiamento climatico, comporta solo sofferenze e sacrifici.
La seconda è che non esistono più guerre locali, perché gli effetti delle azioni belliche si estendono a cascata contribuendo al riscaldamento globale: chi fa la guerra a un paese fa la guerra all’umanità tutta.
La terza è che l'esistenza stessa delle forze armate è una minaccia globale per il loro impatto sul clima (e sugli ecosistemi), ed è incompatibile con la transizione energetica. Per raggiungere almeno la neutralità carbonica occorre che tutti i paesi del mondo siano d’accordo, abbiano lo stesso obiettivo: il sistema climatico del pianeta tocca tutti, nessuno escluso, e per ristabilizzarlo richiede uno sforzo comune di tutti. Bisogna cooperare, ed essere in pace. Non c’è posto per la guerra nella lotta al cambiamento climatico, e se non c’è posto per la guerra non ce n’è neanche per le forze armate, che diventano inutili, come inutile diventa l’industria delle armi, rendendo disponibili per la transizione ecologica risorse umane e finanziarie largamente superiori a quelle necessarie, con il surplus destinabile alla riduzione delle disuguaglianze.
Immagine: Scott Rodgerson (Unsplash)
Articolo pubblicato su connettere.org novembre 2023